La Stampa, 13 agosto 2023
Murgia, l’addio di Saviano
Sono le parole più difficili dela mia vita.
Michela voleva che questa giornata fosse di tutti. Tutti coloro che hanno percorso la sua strada, leggendola, ascoltandola, trovandosi nelle stesse condizioni. Mi aveva detto: «Cosa mi perderò: immagina che gran casino!». E vedendo tutto l’amore che riempie questa chiesa, Michi aveva ragione.
Michela aveva un talento magnifico che le permetteva di ribaltare le cose. Era questo che la rendeva così pericolosa ai poteri. Sapeva mostrarti velocemente come dietro l’accusato ci fosse l’innocenza, come dietro a un colpevole ci fosse la manipolazione del carnefice, come dietro un aggettivo ci fosse l’intero modo di criminalizzare la libertà. Capivi con lei che l’ombra è data dalla luce e non c’è abisso senza superficie. Il conforto non era edulcorare il dolore, il conforto è indicare il sentiero che attraversa il dolore, che ti permette di uscirne fuori. Scrivere era questo, per Michela Murgia: una strada che, attraverso il dolore, porta fuori alla ricerca della felicità. La scrittura per Michi era una grande fatica, anche se mangiava la tastiera con una velocità impressionante. Sembrava suonasse, quando batteva i tasti. Eppure faceva fatica a scrivere perché impiegava troppo tempo da sola. Forse per questo le piaceva scrivere nei ristoranti e nei bar.
Per Michela era la condivisione il senso di tutto, ma spesso per ottenerla devi passare per la solitudine. Quando le cose non andavano ti rispondeva sempre: «Non stare solo, vieni qui». Era la prima cosa che sentivi come risposta, quando per telefono sfogavi dolore, rabbia, tristezza: «Dove sei? Non stare solo». Le scelte di Michela possono essere sintetizzate in questo: non essere soli, non far sentire soli.
Riconoscere le differenze è il primo atto per capire che non siamo soli. Ha reso pubblica la malattia per dimostrare e difendere la dignità, sempre. Diceva: «Il tuo valore non si esaurisce in quanto vieni pagato, e così la malattia non ti fa smettere di essere quello che sei». Anzi, la prospettiva della fine intensifica la possibilità di reinventare la vita. Perché rese pubblica la sua malattia? Per non sentirsi sola e non far stare soli chi viveva le stesse condizioni. Eppure sappiate che Michela ha protetto tutti, fino alla fine. Persino nei suoi ultimissimi, dolorosissimi, atroci momenti, non voleva nemmeno per un attimo che qualcuno portasse su di sé la sua sofferenza. E lei è stata abile a non far sentire il dolore delle sue scelte di lotta, delle sue scelte pubbliche che le hanno fatto pagare un prezzo altissimo in termini di sofferenza.
Io e Michela ci siamo conosciuti e uniti non per quello che abbiamo fatto, ma per quello che ci hanno fatto. In una delle rarissime confessioni pubbliche su questo argomento, Michi raccontò di continue crisi di vomito. E non erano causate da nessuna malattia: erano le conseguenze dei continui attacchi organizzati, del dossieraggio, della pressione mediatica, dell’orrore dei populisti – e non solo – che si accanivano su di lei. Giornali infami e siti immondi col solo compito, anzi il mandato, di ingannare e insinuare come dietro l’impegno ci fosse la furbizia del profitto, dietro la rinuncia ci fosse l’accordo, dietro la solidarietà, la depressione.
La vita di Michela, tutta, è la prova finale che si sceglie di essere differenti. Per anni e anni è stata bersaglio e ha nascosto questo dolore dentro di sé. In questo Paese è stato possibile che si considerasse una scrittrice, un’intellettuale, un’attivista, come un rivale politico, un nemico politico. Ma tra chi ha potere e un intellettuale non c’è reciprocità. C’è sproporzione. Un parlamentare ha il Parlamento a disposizione della propria protezione, mentre l’intellettuale può offrire o sottrarre soltanto la sua voce, nient’altro che le sue parole e il suo corpo. Hanno attaccato sistematicamente Michela col solo scopo di intimidire chiunque decidesse di esporsi. E hanno fatto credere, spargendo infamia, che fossimo noi a diffondere odio, noi che abbiamo invece deciso con fermezza di reagire a tutto questo.
Ho usato il plurale solo in questo momento perché Michela ha voluto stare accanto a me nei processi in cui sono finito. E qui, all’ultimo saluto, non posso che darle tutta la mia gratitudine che non sono riuscito a compensare. Perché Michela c’era, durante le notti e i pomeriggi difficili. E quando le parlavo, lei era bravissima come al solito nel ribaltare. «Non sei contento?». «Ma in che senso contento, Michela?». «Beh, non sei solo. Siamo in due, ci smezziamo! Ci vengono dietro». Così diceva. «Abbi fiducia in chi ci legge e capisce».
Ma a farle più male non sono stati gli squadristi dell’informazione. Quelli che hanno fatto davvero del male a Michela sono quelli che avevano un piede qui e un piede lì, alcuni perché spaventati. Michi diceva: «Dobbiamo rispettare la paura». Ma i pavidi per interesse, quelli che erano, sono e saranno “a metà” per convenienza col loro opportunismo che spacciano per moderazione, con la loro mancanza di orizzonti, col loro pantano... Sono loro ad aver reso la vita difficilissima per Michi.
Michela ha saputo lottare e avere sempre un’orizzonte di felicità. Michela sceglieva di parlare, perché il silenzio di fronte all’orrore l’avrebbe resa infelice. Sapeva perfettamente, però, che prima o poi avrebbe pagato un prezzo. Ma “scegliere” era l’unica cosa che la faceva sentire in asse con se stessa. Non è solo una questione di sensibilità: i diritti moltiplicano le libertà. I diritti non impongono all’altro di agire, permettono a chi vuole scegliere di veder riconosciuta la possibilità di vita.
Ed è alla vita che Michela ha dedicato ogni energia. Perché le strade sicure le fanno le persone che le attraversano. Le case sicure le fanno le luci dentro accese. I Paesi sicuri li fanno i popoli che rispettano i diritti degli ultimi. E un mare è sicuro non quando un confine lo divide, ma quando una nave lo attraversa. —