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 2023  agosto 13 Domenica calendario

Il romanzo sulle ricette perdute a Kyoto batte il saggio dedicato a un solo sapore

«I ricordi sono come le spezie... cambiano i sapori»: se nel cibo si senta l’eco delle pulsioni più profonde dell’anima è un mistero a cui si può accedere seguendo le indagini di Nagare, già poliziotto, protagonista del romanzo di Kashiwai Hisashi, Le ricette perdute del ristorante Kamogawa. Senza nemmeno un’insegna, nascosto come è tra i vicoli di Kyoto dietro il tempio Higashi Hongan, se non fosse per una criptica segnalazione su una guida specializzata sarebbe impossibile da trovare. Funziona così: si tratti di una ricetta della moglie perduta un nabeyaki udon, spaghetti giapponesi o invece dello stufato di manzo abbandonato, da lei, sulla tavola per sfuggire alla proposta di matrimonio di lui, il cuoco filosofo scioglie la trama dei ricordi d’amore restaurandone la storia in cucina attraverso la puntigliosa ricostruzione della ricetta ritrovata.
Nagare, che lavora su commissione aiutato dalla figlia Koishi, sa bene che la grande cucina comincia dai luoghi del mercato, ma supera sé stesso quando ritrova la ricetta e il ristorante, lo Chef di Nagoya, dove la giovane Azuka ha mangiato con il nonno degli indimenticabili Napolitan Spaghetti: «Immersi in un denso ketchup, gli spaghetti sulla piastra erano di un rosso acceso sul quale occhieggiava il giallo della frittatina che vi era stesa sopra, il tutto coronato da tre wurstel tagliati in lungo a mo’ di decorazione». Garantisce Nagare: sublimi!
«Quando parliamo di gusto... giochiamo... fra filologia e cultura: perché sono la lingua e il palato... a sentire i sapori; ma chi li valuta (buoni o cattivi) è il cervello con tutto il suo carico di valori e modelli, giudizi e pregiudizi... storicamente stratificati»: così Massimo Montanari, storico dell’alimentazione, introduce la sua ricerca sul «gusto italiano» individuando fin dal titolo Amaro una specialità peculiare, anzi unica nel panorama storico della gastronomia mediterranea ed europea. L’indivia e la rucola, i carciofi e la scarola, sedano e rape e insieme i cardi e tutte le varietà dei cavoli sono celebrati già nel Seicento per la loro amara dolcezza o dolce amarevolezza. Per esempio: le arance fino al Quattrocento erano note solo nel gusto amaro cosicché la scorza era alla base di una sapida mostarda.
PIACERE
Se nella cucina giapponese il piacere per l’amaro lo si prova masticando steli di crisantemo cotti nel brodo di pesce, la pratica della «gustosa amarezza» trova in Italia la sua ragione storica nella biodiversità della cultura contadina. Cibarsi di erbe e radici, con una predilezione per l’origine selvatica dei sapori, è pratica ancora oggi apprezzata. Come un tempo: perché anche nella cucina dei signori secondo i ricettari di corte persiste quel “retrogusto contadino”, seppure camuffato per nasconderne le origini popolari: se il contadino mangia per saziarsi il signore gusta l’amaro per «eccitare l’appetito». La cronaca di un banchetto Milano 1559 racconta come fra «teste di porco e capponi» rifreddi... gelatina di fagiani e pernici... pavoni a pezzi fossero alternati piatti di cicoria, raponzoli e crescioni, rafani e capperi.
Avvince la lettura dei testi letterari e scientifici, dai trattati di botanica ai ricettari d’epoca che Montanari restituisce all’attualità per spiegare come siamo raccontando come eravamo... Ma non ce ne voglia il professore se nel romanzo di Hisashi, al di là di ogni esotismo, troviamo quel fascino agrodolce della vita che solo attraverso la trasfigurazione letteraria riusciamo a immaginare.