il Fatto Quotidiano, 13 agosto 2023
Il fallimento della riforma Cartabia
Doveva essere “la misura organizzativa più rilevante” di tutto il Pnrr, “un cambiamento epocale” per velocizzare i processi e abbattere l’arretrato, rispettando gli impegni (impossibili) presi con Bruxelles. O almeno così lo descriveva il governo dei Migliori di Mario Draghi. E invece, ancor prima di essere portato a termine, il piano di potenziamento dell’Ufficio per il processo è già un flop certificato nero su bianco. Il programma messo a punto da Marta Cartabia – dal valore di 2,26 miliardi – prevedeva il reclutamento di quasi ventimila dipendenti per semplificare il lavoro dei magistrati, supportandoli tra l’altro “nelle attività di studio, ricerca, preparazione delle bozze di provvedimenti, organizzazione dei fascicoli”. “Tante assunzioni non si erano mai viste prima”, rivendicava a luglio 2021 l’ex Guardasigilli.
Programma da 2,6 miliardi 2 anni e 7 mesi di contratto
Non immaginava che migliaia di questi lavoratori – laureati e spesso non più giovanissimi – avrebbero lasciato l’incarico dopo pochi mesi inseguendo la più banale delle ambizioni: un contratto a tempo indeterminato. Già, perché per salvare le sorti della giustizia italiana il ministero non ha saputo offrire loro nulla di meglio di un impiego precario: due anni e sette mesi al massimo, senza certezza di proroghe o stabilizzazioni. Risultato? Chi vince un altro concorso scappa, anche a costo di guadagnare meno. E l’arretrato finora diminuisce a passo di lumaca, o in molti casi addirittura aumenta.
Così, nella proposta di revisione del Piano inviata alla Commissione Ue, il ministro Raffaele Fitto ha dovuto prendere atto della fuga di massa e chiedere uno sconto del 50% sul target da raggiungere entro il 30 giugno 2024: da 19.719 assunzioni si è scesi a diecimila. E la giustificazione ricorda la proverbiale scoperta dell’acqua calda: “Le offerte di lavoro a tempo determinato di durata inferiore a tre anni (…) non sono considerate adeguate dai soggetti interessati, portando a un progressivo abbandono anticipato dell’incarico”.
Prima tranche da 11 mila Ne sono rimasti solo 5.500
Qualche numero per orientarsi. Lo scorso anno è entrata in servizio la prima tranche di nuovi dipendenti per un totale di 11.017 assunti, di cui 7.789 “addetti all’Ufficio per il processo” (laureati in Economia, Giurisprudenza e Scienze politiche) e 3.238 tecnici. Al 31 dicembre 2022 quindi era “da considerarsi raggiunto” il target intermedio di 8.764 ingressi, si legge nell’ultima relazione sullo stato di attuazione del Pnrr. Lo stesso documento, però, sottolinea che appena quattro mesi dopo, al 30 aprile ’23, risultavano in servizio solo 9.165 unità “a fronte delle nuove immissioni, nonché di 2.286 dimissioni”. Considerato che tra i tecnici si sono dimessi “solo” in 377, significa che avevano già lasciato l’incarico 1.909 addetti all’Ufficio per il processo su 7.789, cioè uno su quattro. E la situazione da allora non è migliorata, perché le graduatorie da scorrere per attingere nuove risorse sono quasi esaurite.
“Non si ha ancora un dato aggiornato sulle unità attualmente in servizio, ma la stima induce a ritenere che ad oggi siano circa 5.500 in conseguenza dell’ultimo reclutamento Inps (posizione a tempo indeterminato); e l’emorragia è destinata a proseguire, in vista di ulteriori scorrimenti di altri concorsi”, si legge in una recente nota del Coordinamento nazionale funzionari Ufficio per il processo, la sigla nata per difendere gli interessi della categoria. “Queste dimissioni”, si avvertiva, “potrebbero mettere a rischio la funzionalità degli uffici e gli stessi obiettivi posti dal Pnrr in materia di giustizia”.
Lo stesso allarme lo lanciava l’Anm in un documento del 5 marzo: “È assolutamente chiaro che l’insieme delle risorse a disposizione degli uffici giudiziari sono inadeguate a garantire gli obiettivi”, scriveva il sindacato delle toghe. Invitando il ministero a garantire “una maggiore stabilità degli addetti all’Ufficio per il processo per non disperdere le professionalità finalmente acquisite”.
Obiettivo smaltire il 65-90% Riduzione media reale: 6%
Pochi mesi dopo quelle previsioni si sono rivelate esatte: l’Italia ha già alzato bandiera bianca sul target più ambizioso, la riduzione del 65% dell’arretrato dei tribunali civili entro la metà del 2024 e del 90% entro la metà del 2026. E le motivazioni addotte parlano da sole.
“Alla luce delle criticità emerse circa il raggiungimento degli obiettivi fissati (sia nel 2021 che nel 2022 la riduzione media annuale dell’arretrato nei tribunali è stata inferiore al 6%)”, il governo “propone due modifiche alternative: una mera rideterminazione quantitativa (…) oppure la previsione di target differenziati, che tengano conto delle differenze oggettive tra uffici giudiziari”, si legge nella proposta di revisione.
Infatti – anche se sembra un paradosso – ci sono uffici che invece di smaltire fascicoli li stanno accumulando: se “95 tribunali su 140 hanno registrato una riduzione media pari al 28%”, “le restanti 45 sedi viceversa hanno registrato un aumento dell’arretrato”.
Rischio danni nel penale L’improcedibilità incombe
Ma la fuga dall’Ufficio per il processo rischia di fare danni anche in campo penale: nei prossimi mesi infatti inizieranno a vedersi gli effetti della famigerata improcedibilità, il meccanismo inventato dalla riforma Cartabia che farà estinguere i processi se durano più di due anni in appello e di un anno in Cassazione (per i reati commessi dal 2020 in poi). Per rassicurare l’opinione pubblica dal timore di un’impunità generalizzata, l’ex ministra ha tirato in ballo più volte il piano di assunzioni, facendo intendere che nei prossimi anni questo avrebbe “drogato la macchina” assicurando il rispetto dei tempi.
Le cose, però, stanno andando in tutt’altro modo. E non per colpa dei funzionari – il cui lavoro è in genere apprezzatissimo dai magistrati – ma delle condizioni di lavoro offerte loro dallo Stato. “È naturale che tra un contratto a termine e un indeterminato in molti scelgano il secondo, persino a malincuore”, dice al Fatto Lisa Caramanno, 41enne presidente del Coordinamento degli ufficiali del processo, già avvocato e assistente parlamentare, ora in servizio alla sezione Lavoro della Corte di Cassazione. “Io stessa ho provato altri concorsi e se dovessi vincerli non so cosa sceglierei: questo lavoro mi piace moltissimo, ma nessuno mi garantisce che l’anno prossimo non mi troverò disoccupata”.
Anche il nuovo ministro Carlo Nordio infatti, finora non è intervenuto per sbloccare la situazione. “Ci stiamo battendo perché siano prorogati fino a giugno 2026”, si è limitato a dire mercoledì a la Stampa, mentre il sottosegretario di FdI Andrea Delmastro – rispondendo a un’interrogazione parlamentare – ha dichiarato che “intendimento di questo governo è (…) di giungere alla stabilizzazione di una parte degli addetti” (non tutti). Di concreto però non c’è ancora nulla. Eppure il giudizio delle toghe sull’esperimento è positivo: “Mediamente assai più giovani della media del personale della Corte, gli addetti hanno dimostrato doti che possono rivelarsi molto utili: una grande duttilità nel servizio, una forte propensione all’utilizzo degli strumenti tecnologici, una decisa capacità di sfruttare i margini delle attività di cancelleria in chiave di più efficace supporto al magistrato”, aveva detto l’ex presidente della Cassazione Pietro Curzio nell’ultima cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario. Ora serve solo che il governo ascolti queste voci.