il Fatto Quotidiano, 13 agosto 2023
Ecuador, morte di stato
“Sono schioccato. Questo è qualcosa che non abbiamo mai vissuto prima. Il mio paese era noto come “l’isola della pace” in America Latina e lo è stato per un lungo periodo”. A guidarci nel caos dell’Ecuador – che a una settimana dalle elezioni presidenziali è sprofondato nella violenza politica, con uno dei candidati, il giornalista Fernando Villavicencio, assassinato in piena campagna elettorale – è l’ex diplomatico Fidel Narvaez, che ha ricoperto la carica di console dell’Ecuador a Londra durante la presidenza del progressista Rafael Correa, terminata nel 2017.
Narvaez ha vissuto le fasi scottanti della stagione di Correa, che non era vista con favore da Washington, perché, nonostante il presidente avesse mantenuto forti legami economici con gli Usa, aveva anche fatto scelte all’insegna dell’indipendenza, come rifiutare di aderire ad accordi di libero scambio che non riteneva nell’interesse della sua nazione, chiedere ai soldati americani di lasciare la base militare di Manta, Oceano Pacifico, e concedere l’asilo a Julian Assange. Alla presidenza di Correa, sono seguite quella di Lenin Moreno, che ha portato la nazione verso scelte diverse – tra cui la più eclatante è stata la decisione di togliere la protezione ad Assange, permettendo il suo arresto – e l’attuale presidenza di Guillermo Lasso, il banchiere conservatore che ha riproposto al Paese ricette di liberismo economico e l’ha solidamente riagganciato all’orbita degli Stati Uniti. Ma un procedimento di impeachment contro Lasso ha portato alle nuove elezioni, che si terranno domenica prossima, il 20 agosto. La candidata progressista Luisa Gonzalez, del movimento di Rafael Correa, era la favorita, ma ora l’assassinio di Villavicencio rischia di cambiare tutto. “Era il candidato più anti-Correa di tutti”, spiega al Fatto Quotidiano Fidel Narvaez, che racconta come Villavicencio non avesse alcuna possibilità di essere eletto, ma nelle elezioni di domenica i suoi voti non andranno di certo ai progressisti. E lo choc innescato dalla sua uccisione, a suo avviso, giocherà contro la candidata progressista.
“L’assassinio viene già usato come un’arma – ci dice – è per questo che credo che ci sia una forte motivazione politica dietro”. Narvaez commenta la discesa agli inferi dell’Ecuador: “L’uccisione di Villavicencio dimostra che i livelli di violenza e criminalità hanno toccato l’apice”, dice senza azzardare ipotesi, ma citando i video dell’agguato, conclude: “Possiamo vedere una gestione irresponsabile e non professionale della sicurezza di uno come lui, che era ad alto rischio. È presto per trarre conclusioni, ma c’è un grande sospetto che ci siano complicità tra le forze di sicurezza dell’Ecuador e i killer”.
I cartelli della droga sono stati subito tirati in ballo. “Un paio di mesi fa, l’ambasciatore Usa ha fatto visita al procuratore generale e pare avesse con sé informazioni sui ‘narco generali’, sugli alti gradi delle forze dell’ordine e delle forze armate dell’Ecuador che hanno legami con i narcotrafficanti”, racconta Narvaez. Su come la sua nazione possa essere passata, nel giro di pochissimi anni, dal secondo paese più sicuro dell’America Latina all’uccisione di un candidato presidenziale, il diplomatico ha le idee chiare: a suo avviso, l’Ecuador è passato dall’appoccio integrale di Correa, fatto di lotta al crimine, giustizia sociale e sicurezza, alla distruzione di questo percorso.“È molto più facile distruggere, che costruire ed è quello che è accaduto dal 2017 in poi con il governo di Moreno, che ha applicato politiche neoliberiste, che di fatto significano: non investire sul sociale. I tagli nella sicurezza e lo smantellamento delle istituzioni che la garantivano. Il governo Lasso ha fatto anche di peggio: ora siamo una delle nazioni più violente nella regione, se non la più violenta”.
C’è, però, chi sostiene che la decisione di Correa di negare la base di Manta agli Usa abbia fatto un favore al narcotraffico, perché lasciava l’area oceanica in prossimità della base senza il potente controllo degli Stati Uniti. L’ex console liquida questa teoria: “Quando la base americana operava, il tasso di criminalità era elevato e quando l’abbiamo chiusa, è sceso”. Su come Washington guardi alle elezioni del 20 agosto, il diplomatico non ha dubbi: “Non credo che gli Stati Uniti vedano il nostro ritorno al potere come nel loro interesse. Non credo che vedano bene una seconda ondata di governi progressisti in America Latina, che invece vediamo, ed è diversa dalla prima. Speriamo che l’Ecuador sia presto parte di essa”.