Avvenire, 13 agosto 2023
Al-Sisi, dieci anni dopo
Dieci anni fa, il 14 agosto del 2013, iniziava per l’Egitto una nuova era politica. O meglio, dopo appena due anni dall’uscita di scena di Hosni Mubarak e a dodici mesi dall’elezione dell’islamista Mohammed Morsi, i militari tornavano alla guida del Paese con determinazione, sostegno popolare eannessa violenza rinnovati. Ingredienti tragicamente condensati nella strage di civili di Rabaa el-Adawyie, mai chiarita: un buco nero nella storia egiziana, rimosso rapidamente dalla memoria collettiva in cambio di una più rassicurante stabilità politica. Nasceva l’epoca di Abdel Fattah al-Sisi, feldmaresciallo delle Forze armate egiziane deciso a ricacciare i Fratelli musulmani e tutti i loro fiancheggiatori nelle retrovie della storia. Ufficialmente, ci volle un altro anno perché la trasformazione da uomo in divisa a statista si compisse a pieno, ma la presidenza al-Sisi de facto muoveva proprio in quei giorni i suoi primi passi.
«Che cosa è cambiato? Molto, per i militari: Mubarak, utilizzando come scudo magistratura e polizia, conteneva la loro capacità di penetrare l’economia del Paese. Al-Sisi, invece, ha dato il via libera alla gestione personalistica di un’élite in divisa», analizza Giuseppe Dentice, responsabile del desk Nordafrica e Medio Oriente del Ce.Si (Centro studi internazionali).
Attento osservatore della scena egiziana, Dentice non fa sconti né alla gestione politico-economica dei vertici egiziani né tanto meno alla narrazione occidentale di essa. «In questi anni, si è ragionato nella logica del male minore, puntando su di una guida autorevole contro il caos. In realtà, l’Egitto è una bomba ad orologeria oggi più di ieri».
Questo perché non sono state applicate le riforme necessarie a far decollare il Paese. Un disastro economico e sociale la cui portata è tristemente da record, se si pensa che dopo la tribolata Argentina, la Repubblica d’Egitto è il principale destinatario degli aiuti del Fondo monetario internazionale: nell’ultimo decennio sono stati quattro. L’ultimo, del valore di 3 miliardi di dollari, è stato concordato a fine dicembre 2022, ma è fermo al palo: Il Cairo continua a risultare inadempiente rispetto agli obiettivi fissati dal Fmi (in primis, svalutazione della moneta, contenimento del debito, avvio della privatizzazione dei colossi statali, peraltro tutti in mano ai militari).
Poi ci sono i 100 miliardi di dollari erogati dai partner del Golfo: anche su quel fronte c’è insofferenza e preoccupazione perché l’investimento non ha fruttato quanto previsto. L’Egitto non solo non prende il largo, ma a mala pena rimane a galla.
Secondo indiscrezioni della stampa egiziana, al Cairo si starebbe valutando un parziale default sul debito pubblico. Ma le elezioni presidenziali incombono, bisogna tutelare l’immagine del raìs, che proprio puntando a migliorare il proprio profilo ha annunciato un processo di “Dialogo nazionale” con parti sociali e opposizioni. La presidenza sarebbe interessata, in particolare, ad interpellare i giovani, raccogliendo proposte e suggerimenti. In virtù degli emendamenti costituzionali del 2019, a giugno 2024 il presidente potrà correre per un terzo mandato, questa volta di 6 anni: per il regime, consapevole delle tensioni sociali, una riconferma plebiscitaria è più che mai cruciale.
L’attuale corso politico ha il supporto della Chiesa copta ortodossa, nella persona del papa Tawadros II: seppure in presenza ancora oggi di episodi di intolleranza e discriminazione nei confronti della minoranza cristiana, negli ultimi dieci anni – anche per opportunismo politico – la dirigenza al-Sisi ne ha favorito il coinvolgimento sociale ed economico.
Non mancano tuttavia le voci, anche fra i cristiani egiziani, di critica e denuncia delle gravi violazioni dei diritti umani, ad opera delle forze di sicurezza, contro qualsiasi forma di dissenso. La repressione sistematica degli avversari ha riempito le carceri egiziane non solo di sostenitori della Fratellanza musulmana, ma di qualsiasi pensiero non allineato. Secondo le ultime stime, i prigionieri politici avrebbero superato quota 65mila.
Una realtà drammatica uscita dall’ombra – per l’opinione pubblica italiana – con l’assassinio del ricercatore Giulio Regeni, torturato a morte. E l’incarcerazione dello studente universitario Patrick Zaki per reati di opinione: la sua vicenda a lieto fine rappresenta uno spiraglio di luce in un quadro a tinte fosche.