Domenicale, 13 agosto 2023
Lasciar sprofondare Venezia?
La prima volta è stata il 3 ottobre 2020. L’ultima, il 23 gennaio scorso. In totale, in quasi tre anni, il colossale impianto di dighe mobili pensato per proteggere la Laguna veneta dall’acqua alta – da tutti conosciuto come MOSE, ovvero MOdulo Sperimentale Elettromeccanico – è entrato in azione quarantanove volte. Eppure, anche se in questo periodo piazza San Marco è rimasta all’asciutto decisamente più che in passato, non possiamo riposare sugli allori.
L’innalzamento del livello dei mari prosegue inesorabile, insieme all’aggravarsi della crisi climatica. Già si prevede che il MOSE, tra qualche decennio, non basterà più. Come potremo intervenire su Venezia allora? Ne parlavamo in una recente conversazione ospitata in radio dalla BBC. La discussione con gli altri ospiti partiva dalla valutazione di diverse soluzioni tecniche. Ma a un certo punto il dibattito ha preso una piega inaspettata: e se lasciassimo affondare Venezia?
Ma facciamo un passo indietro. Il MOSE è un grande traguardo, un’opera di ingegno unica al mondo, sognata diversi decenni fa anche nei corridoi del Massachusetts Institute of Technology di Boston. Un capolavoro che finalmente – al netto di una certa malagestione e dei costi di cantiere andati alle stelle – vediamo realizzato: paratie mobili indipendenti l’una dall’altra che si attivano secondo il principio di Archimede. L’aria compressa viene insufflata all’interno dei singoli elementi, alleggerendoli e quindi sollevandoli quanto basta per contenere le mareggiate. Questo è il presente. Ma fra 50 anni? O fra 100? Quando l’acqua dei mari sarà così alta che neppure il MOSE basterà per contenerla?
Le soluzioni tecnologiche non mancano. Ad esempio, pompare acqua salata sottoterra per innalzare il livello della città – l’opposto di quanto si faceva nelle industrie di Marghera durante il secolo passato con l’estrazione del gas. Oppure chiudere la Laguna su modello olandese, separandola dal mare ma anche compromettendone irrimediabilmente l’ecosistema. Infine, costruire sistemi ibridi tra barriere architettoniche e barriere coralline, analoghi a quanto sta studiando New York a seguito all’uragano Sandy del 2012. Tutto molto interessante, finché un’altra domanda, più scomoda, non fa capolino: cosa stiamo cercando di salvare? Qual è la Venezia che ci stiamo impegnando a proteggere?
La Venezia degli ultimi anni, infatti, è il simbolo più doloroso delle derive del turismo globale. Una città svuotata del suo elemento più importante: le persone. «Cosa sono le città se non persone?» si domanda Shakespeare nel Coriolano. E Venezia, di persone, non ne ha quasi più. Ci sono milioni di turisti ma meno di 50mila abitanti – una piccola frazione, il 25%, di quelli del suo picco storico. Gli antichi romani ci insegnano che le città sono un insieme di urbs (il corpo fisico, gli edifici, le mura) e civitas (il corpo sociale, la comunità). La prima non può esistere senza la seconda. E Venezia ha rinunciato alla civitas perché ha rinunciato ad avere una visione e un obiettivo condiviso. E si sta inesorabilmente spegnendo, diventando ogni giorno sempre più simile a un parco tematico.
Lo ha fatto notare di recente anche l’Unesco. A Parigi, proprio in queste settimane, si discute della proposta di inserire Venezia nella lista dei patrimoni dell’umanità in pericolo. Non solo a causa dei rischi legati ai cambiamenti climatici. Ma anche, e soprattutto, per gli effetti nefasti del turismo “mordi e fuggi”. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite che tutela e promuove la cultura come strumento di pace e integrazione nel mondo, le misure prese (e non prese) negli ultimi anni sono assolutamente insufficienti.
Non è sempre stato così. Negli anni 70 furono vagheggiate molte idee per rinvigorire la civitas. Tra le più interessanti: trasformare Venezia in un’eccellenza universitaria, una “Oxbridge” italiana aperta al mondo. Ma la prospettiva è ormai sepolta sotto il peso degli affitti a breve termine.
Purtroppo, Venezia non ha mai avuto la forza (o la volontà) di imporre un freno alla micidiale corsa allo sfruttamento turistico, dalle grandi navi agli affitti brevi col vessillo di Airbnb. Ha vinto una visione miope dominata da un lato dalla cupidigia dei proprietari immobiliari e dall’altro da governanti locali ormai spesso mestrini, e quindi motivati soprattutto dagli interessi della terraferma.
Continuando con l’attuale passo, nel 2100 Venezia potrebbe essere una collezione di architetture splendide, ma silenziose. Un guscio così vuoto che non ci sarà più molto da cui estrarre valore, e quindi da salvare. Se non possiamo ricostruire la civitas, allora forse meglio lasciar affondare Venezia?
D’altronde i parchi a tema sottomarini sono l’ultima frontiera del turismo globale. Le grandi navi potrebbero tornare a solcare la Giudecca indisturbate. I residenti, trasferitisi in massa a Mestre, avrebbero l’opportunità di proporre costosissime immersioni per ammirare le fondamenta di un’Atlantide perduta. E i proprietari immobiliari potrebbero rifarsi con gli introiti dei futuri colossal di Hollywood – un successo dopo l’altro, fra il thriller, l’epica e il catastrofismo, surfando allegri lo tsunami del cambiamento climatico.
Forse solo in questo modo la città, ormai perduta nell’anima, potrebbe trovare ancora qualcosa da dire. La morte di Venezia potrebbe diventare l’immagine simbolica di cui abbiamo bisogno per affrontare le sfide ambientali e sociali che minacciano l’intero pianeta. Un monito per tutti: Venezia oggi potrebbe essere il mondo domani.
Carlo Ratti dirige il Senseable City Lab presso il Mit di Boston ed è co-fondatore dello studio CRA-Carlo Ratti Associati. I suoi ultimi libri sono «Urbanità» (Einaudi, 2022) e «Atlas of the Senseable City» (con Antoine Picon, Yale University Press)