il Giornale, 13 agosto 2023
Biografia di Gaetano Salvemini
Di Gaetano Salvemini ricorre quest’anno il 150° anniversario della nascita (era nato a Molfetta l’8 settembre 1873), e credo che ripensando la sua vita e la sua opera noi abbiamo ancora molto da imparare da lui. Fu autore di libri geniali: basti pensare a Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295 (1899), in cui il giovane maestro pugliese innovava profondamente l’interpretazione delle lotte politiche di quel periodo, collocandole in una prospettiva socio-economica; o a La rivoluzione francese (1788-1792) (1905), che ebbe una recensione positiva scritta da uno dei grandi storici della Rivoluzione: Albert Mathiez. (Ma, a differenza di Mathiez, Salvemini dava un ritratto molto negativo della figura di Robespierre). Purtroppo la narrazione di Salvemini si fermava a Valmy, mentre il piano generale dell’opera prevedeva di giungere fino al colpo di stato di Napoleone: e c’è da rimpiangere che Salvemini non abbia portato a termine il suo lavoro, che egli stesso considerava il migliore uscito dalla sua penna. Ma direi che ancora oggi abbiamo molto da imparare da Salvemini soprattutto per la sua capacità di rivedere radicalmente le proprie posizioni ideali e politiche. Basti pensare che, vicino ai socialisti nei primi anni del secolo (scriveva sull’Avanti! e sulla Critica sociale), e fermamente contrario alla conquista della Libia (uno «scatolone di sabbia»), nel 1914-1915 fu favorevole all’intervento dell’Italia nella Grande Guerra, a fianco delle potenze dell’Intesa. E dell’interventismo egli fu una delle personalità più vivaci e combattive (il 18 ottobre del 1914 si congratulò con Mussolini per il suo abbandono della linea della neutralità assoluta). Dal marxismo e dal socialismo Salvemini venne sempre più allontanandosi, e fece propria la concezione elitistica di Gaetano Mosca. Soggetti e protagonisti della storia erano le élites, le quali indicavano alle classi e ai ceti (alle masse) obiettivi politici da raggiungere. In un interessantissimo e bellissimo carteggio con Angelo Tasca (uno dei fondatori del Partito comunista italiano, poi espulso da Togliatti per la sua opposizione a Stalin e allo stalinismo), Salvemini affermò che la dottrina storico-politica di Marx non aveva nessun fondamento: la classe operaia non era una categoria socio-politica, non era un soggetto politico, e non diventava tale solo perché alcune migliaia di operai aderivano a un partito di ispirazione marxista. La sua concezione della vita era ispirata a un laicismo intransigente; ma questo non gli impedì di rifiutare l’esclusione dei sacerdoti dall’insegnamento nelle scuole. (Alla riforma della scuola lo storico pugliese dedicò molte delle sue energie). Compito dell’insegnante, egli diceva, non era quello di inculcare nella mente degli alunni un credo, una fede, bensì era quello di dare ad essi tutte le notizie, accertate con rigore, e tutti i concetti necessari per acquisire una forma mentis non dogmatica. E non c’era dubbio affermava Salvemini che molti sacerdoti si ispiravano a questo orientamento, mentre molti laici erano seguaci fanatici di qualche credo. Ma il coraggio autocritico di Salvemini si manifestò a tutto tondo nella valutazione dell’opera di Giovanni Giolitti. Nel 1910 lo storico pugliese (più che mai impegnato nella lotta politica) aveva pubblicato un opuscolo contro Giolitti, con un titolo assai eloquente: Il ministro della mala vita. L’accusa principale era che Giolitti, nel Meridione, manipolava le elezioni attraverso i prefetti: ciò gli assicurava l’elezione alla Camera di circa duecento deputati, cioè gli assicurava la maggioranza, che gli permetteva di governare e di sgovernare a suo piacimento. Ma nel 1949, scrivendo la prefazione a un libro sull’età giolittiana, opera di uno storico italo-americano (Salomone), Salvemini corresse notevolmente il proprio antigiolittismo: i Paesi democratici nei quali era vissuto dopo il 1925 (quando egli lasciò l’Italia fascista e scelse la via dell’esilio) gli avevano mostrato ben altre nefandezze. E non solo: Salvemini rivalutava la storia dell’Italia liberale prefascista, che egli da giovane aveva severamente criticato da un punto di vista socialista: nessun Paese in Europa, diceva, aveva fatto tanti progressi economici, sociali e più generalmente civili come l’Italia (Paese, oltretutto, assai povero di materie prime); il suffragio era stato ampliato costantemente, finché, nel 1911, Giolitti aveva introdotto il suffragio universale maschile (gli elettori passarono da 3.329.147 a 8.672.249). In questo modo Salvemini rivalutava la storia dell’Italia liberale prefascista (e ammetteva che alcune delle sue critiche a Giolitti erano state controproducenti), condividendo, sostanzialmente, il giudizio che ne aveva dato Benedetto Croce nella Storia d’Italia dal 1870 al 1915. E non fu certo un caso che nel secondo dopoguerra il settimanale Il mondo, diretto da Mario Pannunzio, si avvalesse della collaborazione di seguaci e discepoli sia di Croce che di Salvemini (benché i rapporti fra queste due personalità fossero pessimi). Nei suoi ultimi anni (morì a Sorrento nel 1957) Salvemini combatté con tutte le sue forze i comunisti e il totalitarismo sovietico, e cercò di dar vita a una terza forza laica, capace di imporre riforme incisive. Ciò però non gli impedì di appoggiare nel 1953 la cosiddetta «legge truffa» (come la chiamarono i comunisti, ma che di truffaldino non aveva nulla, poiché era una onesta legge maggioritaria).