Corriere della Sera, 13 agosto 2023
Biografia di Lorenzo de’ Medici
Sarebbe impensabile oggi per un uomo di governo, diplomatico, banchiere, dedicarsi, al di fuori degli impegni pubblici, anche all’esercizio letterario, e non da dilettante. Ma evidentemente le giornate di Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico, erano diverse da quelle attuali, se gli permisero di essere, oltre che signore di Firenze per vent’anni, poeta dalla vastissima e variegata produzione. Per non dire della dedizione alla lettura (dei classici e dei contemporanei) e dei rapporti di scambio con letterati, pensatori, artisti. Oltretutto, in una vita non lunga, essendo nato nel Capodanno 1449 e morto nel 1492 per una uricemia che lo tormentava da tempo. Un genio? Solo un genio poteva rimanere nella storia d’Italia come uno dei maggiori governanti di un’epoca irripetibile e occupare uno spazio non secondario nelle antologie letterarie. Detto ciò, non resta che rallegrarsi del ritorno – dopo trent’anni e con gli opportuni aggiornamenti – dell’edizione commentata delle Opere di Lorenzo de’ Medici, a cura di Tiziano Zanato (Oscar Classici).
Dunque, il dominatore prudente e spregiudicato, «ago della bilancia d’Italia», secondo la famosa definizione di Francesco Guicciardini, il promotore di cultura e il poeta laureato. Figure che non sempre è possibile né lecito tenere separate, come fa notare Zanato nell’Introduzione. Uomo non bello, con quel profilo ispido, e nemmeno irresistibile, ma sciupafemmine (copyright Giulio Busi), sempre teso tra umori contrari, «pronto di anima e di corpo», come scrisse un biografo coevo, Niccolò Valori, che ne lodò l’agilità e la «leggerezza della pensosità». A Francesco De Sanctis non piacque la sua contraddittorietà di cristiano e platonico, ma insieme «epicureo e indifferente», arguto e faceto altrettanto ispirato nelle laudi devote e nelle riscritture dei classici, lesto ad alternare «orgie notturne e disputazioni accademiche, corrotto e corruttore».
Già Niccolò Machiavelli sottolineò la coesistenza in Lorenzo di «due persone diverse, quasi con impossibile coniunzione congiunte», la mescolanza di alto e basso, come piacerebbe ai postmoderni. Qualcuno gli rimproverò l’oltranza stilistica, l’adozione eccessiva di dialetto e di accenti popolareschi, l’infrazione ai moduli umanistici. Ed è vero che il poeta Lorenzo de’ Medici restò fedele al volgare, amante e rimodulatore delle tre corone (Dante, Boccaccio, Petrarca), ma seppe elaborare anche i miti e i classici (Virgilio, Ovidio, Stazio eccetera), da buon allievo di un gran commentatore degli antichi come Cristoforo Landino. Al Landino si aggiunge, come suo nume tutelare sempre più influente, Marsilio Ficino, il filosofo che considerò il «divino» Platone un anticipatore della fede cristiana.
È infatti la straordinaria varietas di Lorenzo, come osserva Zanato, a colpire. Il che, nonostante la tendenza al non finito, non autorizza a considerare la sua attività poetica un hobby, come fu invece per altri grandi governanti, per esempio l’imperatore svevo Federico II. Passione e competenza è il binomio che anima il principe fiorentino, spesso spingendolo verso soluzioni di autentica avanguardia, ma sempre frutto di una cultura profonda e di un’elaborazione tenace. Tant’è vero che tutte le opere e operette di Lorenzo risentono di un’inquietudine formale, che comporta un lavorio talvolta ossessivo con ripensamenti e riscritture anche radicali. Il Canzoniere amoroso, originato da prove liriche risalenti ai suoi quindici anni e già ispirate alla passione per la coetanea Lucrezia Donati, lo impegnerà per quasi un trentennio, come un secolo prima aveva impegnato Petrarca, ovvio e irrinunciabile modello del Magnifico variamente rimescolato negli anni con suggestioni stilnoviste, dantesche e umanistiche, sentimenti personali e attrazioni filosofiche più attuali, in particolare quelle cresciute nella vicinanza con Marsilio.
Il tutto non va disgiunto dalla più esplicita politica di recupero della tradizione toscana, che nel 1476-77 diede luogo alla cosiddetta Raccolta aragonese, un’antologia della migliore poesia dal Duecento in poi allestita come dono a Federico d’Aragona in collaborazione con l’amico Angelo Poliziano. Poco dopo, la congiura dei Pazzi, con l’assassinio del fratello Giuliano, arriverà a segnare una svolta politica e personale, trascinando Lorenzo in una zona buia che comporta un silenzio poetico quasi totale di un anno e mezzo. Per passaggi successivi, si arriva a un secondo canzoniere in forma di prosimetro (versi e prosa), noto come Comento de’ miei sonetti improntato sulla Vita nuova di Dante, elaborato tra il 1481 e il 1484 e ripreso in anni più tardi alla luce di una più forte convinzione filosofica.
Si accennava agli altri Magnifici, più spregiudicati e sperimentali di quello lirico, legati a un versante popolaresco ed esposti all’influenza del vecchio amico Luigi Pulci, l’altro polo d’attrazione, essenzialmente comico, frequentato quasi ogni giorno in contemporanea con il primo. La Nencia da Barberino è la messa in burla rustica, in una serie di ottave, del corteggiamento e del lamento amoroso tipico del genere bucolico illustre che Lorenzo aveva praticato in gioventù. Ma per la parodia Lorenzo ebbe un gusto tutto particolare, tanto da stravolgere l’amata Commedia di Dante e da impegnarsi a reinventare le «canzoni a ballo» che in precedenza venivano intonate all’ingresso dei cavalieri nei tornei. Dopo il 1488, superato il decennio di interdizione di sfilate trionfali o religiose, fu l’estro di Lorenzo a farne «canti carnascialeschi» destinati alla musica per le mascherate di carnevale e intonati in compagnia della brigata di amici.
Scritte in forma di grossolane allocuzioni alle donne sullo sfondo di tableaux vivants centrati sulle corporazioni di mestiere, le singole sequenze partono dall’attività lavorativa per assumere una metafora sessuale attraverso il gioco dell’equivoco osceno, come nella «canzona de’ visi addietro», tutta giocata su allusioni sodomitiche, o come la «canzona delli innestatori», che comincia con un appello facilmente interpretabile: «Donne, noi siam maestri d’innestare,/ in ogni modo lo sappiam ben fare». Sfugge invece a ogni doppio senso, la notissima Canzona di Bacco con il suo esordio memorabile, invito alla gioia ma anche presagio di morte: «Quant’è bella giovinezza,/ che si fugge tuttavia!/ Chi vuol essere lieto, sia:/ di doman non c’è certezza». Fino all’ultimo, la congiunzione di «due persone» (e anche più) in una.