Robinson, 12 agosto 2023
Biografia di Francesco Jovine
Il racconto del Risorgimento è la grande occasione mancata di una vera epica che il nostro paese non ha mai avuto. Pensate solo al cinema: poteva diventare, con le Guerre d’Indipendenza, l’impresa dei Mille, il brigantaggio, l’equivalente del western (in fin dei conti gli americani hanno trasformato in un’epica degna della Chanson de geste storie comuni di bovari, quali i cowboys!). Basterebbe sfogliare laSignora Ava di Francesco Jovine, trascinante romanzo storico che racconta il Risorgimento in Molise, entro un diorama movimentatissimo e spettacolare. Si pensi al massacro di Isernia del settembre 1860: da un lato l’esercito sabaudo che incalza da Sud, insieme ai garibaldini, arruolando nella Guardia Nazionale la borghesia rurale illuminata, dall’altro i Borboni che resistono appoggiandosi ai feudatari latifondisti, al clero e alla massa sanfedista dei contadini, dopo la sconfitta trasformati spesso in briganti (giustamente diffidenti verso il re sabaudo e i “galantuomini”, di idee progressiste ma avidi di impossessarsi delle terre demaniali). Per quanto ciò possa sembrare un po’ meccanicistico, Francesco Jovine, figlio di contadini, ci ha dato un Gattopardo dei poveri, una visione della realtà dal basso, mentre il nobile Giuseppe Tomasi di Lampedusa ci ha mostrato la “aquilonare” visione di un principe, giungendo però alle stesse malinconiche conclusioni riguardo alla Storia, dove tutto incessantemente cambia affinché nulla cambi.Jovine (1902-1950) nasce a Guardialfiera, a trenta chilometri dall’Adriatico, in una famiglia di piccoli proprietari terrieri. Studia disordinatamente, con una vorace passione per i libri che si riversò sulla biblioteca domestica e poi su quella più ampia messa a disposizione da un mecenate locale. Insegna nella scuola e poi nel 1925, laureatosi a Roma, diventa direttore didattico per dedicarsi meglio alla letteratura. Collabora a quotidiani e periodici. Prova subito a fare i conti, un po’ spavaldamente, con i nostri inevitabili modelli letterari: nel 1928 Il burattinaio metafisico, satira del pirandellismo, nel 1934Un uomo provvisorio, satira della retorica dannunziana. Insofferente verso il regime, insieme alla moglie va a Tunisi e al Cairo per insegnare. Torna a Roma nel 1940 e dopo alcuni smaglianti reportage approda alla Signora Ava, 1942, una rappresentazione della fine dei Borboni al tempo stesso fiabesca e sorretta da una accurata documentazione storica, intrisa di umorismo manzoniano e tenerezza effusiva. Già vicino ai comunisti, aderisce alla Resistenza. Dopo varie prove narrative di esito incerto, racconti e commedie, esce nel 1950 l’altro grande romanzo Le terre del Sacramento (ambientato in Molise negli anni del fascismo), nel quale un pessimismo dell’intelligenza di impronta verghiana viene temperato dall’ottimismo della volontà ispirato a Gramsci. Cosa colpisce oggi della narrativa di Jovine? Prendiamo il capolavoro, Signora Ava (ora in una nuova edizione, con densa postfazione di Sebastiano Martelli, Cosmo Editore). In pieno neorealismo rifugge da qualsiasi tentazione piattamente documentaristica. Come Gadda non si ferma al “fenomeno”, piuttosto intende mostrarci il nucleo nascosto della realtà, il “noumeno”. E lo fa non con la lingua espressionista gaddiana ma con una prosa scarnificata, di andamento classico, a tratti modulata su una cadenza dialettale, memore di certe squisitezze frammentistiche («le pareva che via via che il sole calava e la mattina diventava cinerea il mondo fosse percorso da un vento glaciale…»), ma anche di un severo epos arcaico. La cronaca diventa mito, la vicenda storica sfuma nella fiaba, Garibaldi si mescola a «Santo Michele Arcangelo», i conflitti sociali somigliano a scontri tra forze telluriche, sullo sfondo di un tempo ciclico sempre-uguale. Ritorna il Sud come categoria non solo geografica ma antropologica, tra fatalismo e millenarismo, tra rivolta anarchica ed estraneità ai modelli di vita del Nord. Per Ignazio Silone, che auspicava l’uscita da un angusto meridionalismo verso una maggiore universalità (e pensava ad africani e asiatici che si battevano per la loro libertà), un racconto abruzzese può essere accolto in Virginia o in Ucraina come la narrazione di una vicenda locale. Anche perciò un narratore come Jovine ci è utile perfino per riannodare alcuni fili con il mondo dei nostri migranti, ricordando con loro il passato mitico della “signora Ava” di ogni tradizione. La pagina più alta del romanzo, tra disposizione affabulatoria e struggente lirismo, è forse la morte di don Carlo – protagonista insieme a don Matteo e al servo poi brigante per caso Pietro Veleno – che ricorda la campagna napoleonica: «Tutto bianco, tutto bianco avanti, indietro, all’infinito… la varietà dei colori il Signore la offre per il nostro gioco di vecchi bambini… di un colore solo sarà il gran mare in cui rientriamo».Qualunque giudizio storico, anche severo, che possa darsi sul Risorgimento come conquista coloniale – prima di Jovine ricordiamo almeno De Roberto e Pirandello – non dimentichiamo che si è trattato di un passaggio obbligato, per quanto contraddittorio. Il nostro orizzonte attuale è quello della modernità illuminista, fatta di legalità e diritti civili (dove “la legge è anonima” dice un notaio, contro qualsiasi favore personale familistico). Eppure una modernità plurale, inclusiva dovrà accogliere anche il punto di vista dei contadini e dei cafoni, la lentezza, a volte saggia e a volte testarda, con cui sempre un poco resistono al Progresso: «Pietro camminava con l’agile e penosa andatura dei contadini, che sembra abbiano davanti sempre una salita».