la Repubblica, 12 agosto 2023
Murgia, il funerale social
Il frontespizio. La pagina amata. La citazione. La dedica. La fotografia casuale. La testimonianza di un incontro: in una libreria, a un festival. La libraia, il libraio. L’immagine salvata anni fa nel rullino digitale. Il segmento di conversazione recuperato su Whatsapp. Un ricordo, un aneddoto. Il lettore, la lettrice. Anna, per esempio, che condivide «una preghiera», ma una preghiera concreta e laicissima: «Che tutti quelli che non l’hanno letta, che si sono fermati ai dibattiti televisivi, che non hanno assaporato la profondità della sua scrittura, per una volta tacessero».
Ma la verità è che difficile tacere, quasi impossibile: perché Michela Murgia – interpretando, come ha osservato Simonetta Fiori, il passaggio da una società letteraria tradizionale a una società mediatica in cui conta la forza nel raccontare le idee e sé stessi – è esistita, esiste anche al di fuori dei suoi libri.
Per vie parallele a quelle del suo amico Roberto Saviano, ha assunto una postura intellettuale antica in modo molto contemporaneo: da non nativa digitale, è sbarcata sui social per tempo, con impressionante e inarrivabile (per il 100% degli scrittori italiani viventi) abilità, con un’intelligenza giocosa, capace di adattare i contenuti alle forme e alle piattaforme.
Non usava Facebook e Instagram per offrire, come quasi tutti, un goffo, prolisso, convenzionale diario: li usava come spazi per compiere gesti diversi in una sequenza molto ampia di gesti.
Nessuno irrilevante rispetto alla sua intuizione, portata a consapevolezza radicale in questi ultimi anni: essere “solo” una scrittrice non può bastare. Non che avesse dimenticato o sacrificato la dimensione del letterario – la lingua lavoratissima di Accabadora (2009) torna nel meno compreso ma intenso e sibillino Chirù (2015) e in molte pagine di Tre ciotole (2023) – ma aveva scommesso sull’energia di una scrittura argomentativa che esce dai confini dell’oggetto libro, che esonda, che va oltre gli articoli pubblicati da un giornale o da un sito web, che si polverizza e brilla altrove – una provocazione, una domanda, una testimonianza, un video, una “storia”, perfino un meme.
Ciò che si fa per contenuti di natura, diciamo così, non strettamente culturale, Murgia ha saputo farlo con la teologia, le prospettive femministe e queer, la politica della migrazione, i neofascismi più o meno invisibili, e molto altro. Attentissima al linguaggio e ai linguaggi – lei che in pubblico parlava un italiano sintatticamente e lessicalmente perfetto –, sapeva come rinnovarli, renderli persuasivi nell’era della distrazione, e arroventarli.
Già cinque anni fa, in un volume intitolato Letteratura e nuovi media (Bulzoni), chiariva all’autore, Paolo Massari, che «il romanzo non è l’unico orizzonte della narrazione».
Per la promozione di Chirù aveva aperto un profilo Facebook a nome del personaggio. «C’è una quota di creatività del lettore – spiegava – che io voglio vedere all’opera, per me la questione dei finali aperti è centrale. Io vengo da tanti anni di giochi di ruolo, e la costruzione della narrazione di gruppo parte proprio dal presupposto che tu cedi una quota di autorialità agli altri e ti lasci sorprendere e sorprendi, non decidi tutto tu. Il narratore unico è una cosa che riguarda il romanzo ed è bello, interessante, sei Dio, però quando il narratore è collettivo è un’altra cosa, diversa: in questo caso ciascuno muove lo sviluppo, dall’interazione nasce lo sviluppo e tu non sai dove vai a parare perché lì lo scopo è un altro, non quello di andare a parare ma incollare l’altro a un filone che tenga vivo il suo interesse per un tempo sufficientemente lungo. A me quella dimensione manca molto, io mi rendo conto che su Facebook ho recuperato quella dimensione».
Su Instagram l’ha resa esplosiva. E questa dinamica interattiva ha prodotto, produce una narrazione diversa, più larga, polifonica: nella quale si trovava a proprio agio, e che pure però le ha fruttato valanghe di insulti e un odio politico che nemmeno la morte smorza del tutto.
Così, dalla notte scorsa, nel fiume del tipico cordoglio social per i vip (a cui i vip stessi danno il loro contributo, in questo caso – politici a parte – da Simona Ventura a Barbara D’Urso a Marina Berlusconi), la notazione ancora incattivita e perciò quasi oscena («Se dicessi che mi dispiace, direi una cosa non vera»; «Non ci mancherà») si confonde con l’“Eterno riposo”, o ancora, con i versi del “X agosto” di Pascoli, evocati per via della data della scomparsa.
Poi le tessere aneddotiche, “quella volta che”: spesso così autoreferenziali e trascurabili che ne avrebbe riso lei per prima. Ma ciascuno ha il suo modo di esprimere il dolore: e chi a rimprovera al «95% delle persone che oggi postano su #MichelaMurgia» di non avere letto i suoi libri, si potrebbe rispondere che però hanno partecipato, in forme e da posizioni differenti, a un’esperienza intellettuale ed emotiva insieme. «Non sono un lettore e non mi piace leggere (ahimè) – scrive @FabioFor1 – ma Michela Murgia ha avuto la grande potenza di farsi conoscere, ascoltare e far riflettere sulla vita e sul mondo».
Chi ha amato un suo romanzo. Chi ha ascoltato i suoi podcast. Chi l’ha sentita parlare in pubblico o alla radio. Chi l’ha vista recensire (stroncare ferocemente!) libri in televisione. Chi si è sentito incoraggiato dal suo modo di raccontare la malattia. «Non ho sempre condiviso il suo pensiero» è l’incipit di molti post e messaggi. Ma c’è chi cita sue frasi che sono già aforismi involontari. Chi la rimpiange come «fonte di ispirazione».
«Ricordatemi come vi pare», aveva detto lei qualche mese fa. E anche questo è un pensiero di libertà: quella cultura della domanda che Murgia attribuiva ai suoi studi teologici l’ha allenata alla dialettica anche più aspra e ostinata. Si può dire per lei, anche in questo caso, ciò che si può dire per pochi suoi colleghi contemporanei: che ha spinto, qualche volta quasi costretto, decine di migliaia di persone a pensare.