Il Messaggero, 12 agosto 2023
Morta di fame dietro le sbarre
Voleva uscire di prigione per stare con suo figlio. E quando si è vista negare questa possibilità ha iniziato un duro sciopero della fame, rifiutando anche l’acqua. Un regime impossibile da reggere per il suo fisico: dopo nemmeno tre settimane Susan John è morta a 42 anni nel carcere delle Vallette a Torino, nella sezione dove era rinchiusa e tenuta sotto osservazione dai medici. La situazione aveva già sollevato grande preoccupazione nell’istituto penitenziario. Il suo sciopero era iniziato lo scorso 22 luglio, proprio quando era entrata in carcere. Fin da subito aveva rifiutato acqua e cibo, non acconsentendo, cosa ancora più grave, a nessuna terapia. Negli ultimi giorni, proprio per l’aggravarsi delle sue condizioni, era stato chiamato il 118 per un ricovero d’urgenza, ma la donna aveva rifiutato anche quello. La 42enne, di origine nigeriana, da poco era stata condannata a oltre dieci anni di carcere per il reato di tratta di esseri umani. Un macigno che non le permetteva di stare a casa con suo figlio piccolo, che era stata costretta ad affidare al marito. Ora la sua morte ha aperto tutta una serie di interrogativi. Poteva essere salvata? Un caso simile ed eclatante, seppur con un differente epilogo, è stato quello di Alfredo Cospito. Neppure nei giorni più critici della sua protesta – contro il regime del 41 bis – è stato possibile sottoporlo forzatamente a qualche terapia dal momento che la sua scelta è sempre stata espressa con estrema lucidità.
LA PROTESTA
Il caso di Susan presenta però una grande differenza: il fatto che la donna rifiutasse anche l’acqua ha accelerato il processo che l’ha portata alla morte. Il pubblico ministero titolare del fascicolo Delia Boschetto ha disposto l’autopsia sul corpo della detenuta. «Sono innocente, fatemi uscire per stare con mio figlio» continuava a ripetere la donna a chiunque incontrasse in carcere. Avrebbe finito di scontare la sua pena nell’ottobre 2030: era rinchiusa in un settore speciale della sezione femminile, dotato di quattro celle, riservato alle recluse con problemi psichiatrici o comportamentali. Non si tratta della vera e propria Atsm (articolazione per la salute mentale), che è nel padiglione maschile per i detenuti uomini. È comunque previsto il regolare passaggio di medici e un sistema di videosorveglianza h24, di cui si occupa il personale di polizia penitenziaria. Anche la sera prima di morire ha rifiutato di essere trasferita in ospedale. A trovarla senza vita sono stati gli agenti della polizia penitenziaria: erano più o meno le tre del mattino quando è scattato l’allarme. Un’eventualità di cui sembrava essere ben consapevole visto che accanto a lei hanno trovato un biglietto: «Se mi succede qualcosa chiamate il mio avvocato».
I SUICIDI
A poche ore dalla morte di Susan un’altra detenuta si è tolta la vita impiccandosi nella sezione femminile dello stesso carcere. L’italiana, Azzurra Campari di 28 anni, era stata trasferita a fine luglio da Genova. Sull’episodio sono in corso le indagini mentre sale a tre il numero delle detenute che si sono tolte la vita nell’ultimo mese e mezzo solo a Torino. Il 29 giugno Graziana Orlarey, 52 anni, si era infatti suicidata ad appena pochi giorni dalla sua scarcerazione per il timore di cosa avrebbe trovato fuori. Dopo che si è diffusa la notizia della morte di Susan, non sono tardate le reazioni.
LA POLEMICA
«Purtroppo dal carcere non ci hanno mai segnalato il caso di questa donna – ha spiegato la garante cittadina dei detenuti, Monica Gallo – Forse non sarebbe cambiato nulla, ma almeno avremmo potuto fare un tentativo. In casi come questo è importante essere informati per tempo in modo da fornire al detenuto tutti gli aiuti possibili». Sul caso è intervenuta anche la sorella di Stefano Cucchi, la senatrice Ilaria Cucchi. «È una tragedia che non può essere tollerata in un Paese che si professa civile e democratico. Una morte di cui comunque è responsabile lo Stato che aveva in custodia la vita della vittima». Sulla stessa linea, Igor Boni, presidente dei Radicali Italiani. «Inutile cercare singoli responsabili, è l’intero sistema che porta dietro le sbarre soprattutto persone con problemi psichiatrici, poveri allo stremo, immigrati senza fissa dimora, tossicodipendenti, per un terzo del totale detenuti in attesa di giudizio definitivo». Sull’accaduto sono intervenuti anche i sindacati di polizia. «Quello del malfunzionamento del carcere in Italia – ha sottolineato Leo Beneduci, segretario generale Osapp – si appresta a diventare l’esempio più eclatante delle contraddizioni, a discapito dei più deboli».