La Stampa, 12 agosto 2023
Intervista a Stefano Massini
Stefano Massini è l’autore italiano più rappresentato e pubblicato del momento: è notizia di ieri che la sua opera omnia sbarcherà in Cina e Corea, mentre Lehman Trilogy si appresta ad andare in scena anche in India, Singapore e Hong Kong. «Ero un ragazzino timido e un po’ triste. Il teatro mi ha salvato la vita. Mi ha dato tanto e tanto devo a lui»: quel ragazzino oggi è protagonista di una calda estate di lavoro, dove non si nega a chi lo vuole e mai si ferma. «Presentarmi davanti alle persone e portare a galla zone d’ombra e parti conflittuali mi fa sentire vivo».
Niente vacanze, allora?
«Qualche pomeriggio al più. Mai lavorato e viaggiato tanto, dal Nord al Sud e viceversa, Isole comprese».
E molta strada la sta facendo con Luca Barbarossa per il vostro spettacolo sull’amore: bilancio?
«Penso che Luca sia uno dei cantautori più raffinati della scena italiana. Io sono stato spesso suo ospite in radio. E lui è venuto a vedere a Firenze il mio spettacolo su Freud, L’interpretazione dei sogni. È nato in quel dopo spettacolo con cena l’idea di lanciare una provocazione sul tema dell’amore: accusato dall’umanità delle peggio nefandezze, Amore decide di farle causa. È un’impalcatura che ci permette di trattarne tutte le sue sfaccettature: storie, personaggi, canzoni, meriti, demeriti e luoghi comuni. È andato benissimo anche in situazioni all’aperto molto poco teatrali».
Qual è la frase più deprecabile sull’amore?
«Il primo amore non si scorda mai. È vero, ma questo primato dell’amore giovanile, quello alla Romeo e Giulietta, fa troppe vittime. Fa cadere nella trappola di un’irripetibilità che è tale solo per via dell’età. In ogni età assume colori diversi».
E lei lo ricorda il primo amore?
«Ero al liceo. Ricordo perfettamente la prima ragazza che mi fece battere il cuore. Ancora di più perché non era corrisposto. Era una ragazzina appena più piccola di me, mulatta: si vede che già allora amavo il mondo in tutte le sue varietà. È un ricordo che mi fa sorridere perché va di pari passo con l’incontro con il mio vero grande e imperituro amore: il teatro. Fu totalizzante e travolse la mia vita».
Che ragazzino era?
«Timido e pensieroso. Ma stavo bene se riuscivo a far ridere gli altri. Facevo imitazioni. Però non era la cosa in sé a farmi star bene, quanto simulare un altro e nascondermici dietro: assumere un’altra faccia, un alter ego. È un’arte fragile e sempre in bilico, il teatro: solo il Covid ha svelato quanto ne abbiamo bisogno».
Una forza che discende da una debolezza?
«È la sua socialità a renderlo inattaccabile e indispensabile. Cosa che non accade al cinema, invece, che infatti sta attraversando un momento di difficoltà. La sua unicità sconfitta dalla comodità (della tv, delle piattaforme). Il teatro questa comodità non l’ha, ma ti obbliga a sceglierlo».
Ha smesso di essere timido?
«C’è un momento in cui torna. Ed è il momento critico in cui lo spettacolo finisce e la gente che fino a un momento prima ti applaudiva calorosamente, facendoti sentire necessario e vivo, se ne va, persone così connesse con te tornano estranee, alle loro vite. Ecco, vedere quella platea improvvisamente vuota mi fa male. In quel momento torno quel ragazzino pensieroso e triste».
Un po’ freudiana come immagine. D’altronde con Freud ha confidenza, L’interpretazione dei sogni è altro suo spettacolo di questi mesi.
«È conclusivo di un lavoro decennale che ho fatto sui sogni, la psicanalisi e Freud, nato in un momento irripetibile: che mi trovavo ad avere la stessa età di quando lui lo scrisse. Così in scena c’è uno sfasamento: è lui che parla o è Stefano Massini? Sogno e teatro sono contigui. Shakespeare l’ha detto tante volte. Nella drammaturgia c’è anche il percorso di quel medico austriaco che inizia a tessere una trama fittissima per arrivare a spiegare il significato dei sogni. E che, d’accordo con l’editore, non pubblica subito il libro che ha scritto ma aspetta l’alba del 1900: perché è perfettamente cosciente che cambierà il mondo e il nuovo secolo ne sarà condizionato. Tanti che vengono a vedere lo spettacolo, non l’hanno mai letto ma tutti l’hanno sentito nominare. Con Freud riparto dall’Alto Adige il 3 ottobre, due settimane a Milano, poi Torino dal 7 novembre».
Gli altri impegni quali sono?
«L’alfabeto delle emozioni è del 2020 ma continuano a chiederlo (il 30 sono a Torino). Ci sono le presentazioni di Manhattan Project (che vivo come uno spettacolo), e i festival letterari e teatrali. Domani sarò a Velia, in Campania con un testo scritto apposta per l’occasione, Dialogo con i classici, ieri è oggi, e il 17 in Puglia ospite della Notte della Taranta. Sarà che sono un ibrido sospeso tra mondi diversi?».
Cioè?
«Per tanto tempo ho solo scritto. Poi la tv mi ha messo sotto i riflettori e reso un personaggio, che la gente voleva vedere anche a teatro. In queste vesti, che non sono da attore ma da narratore e affabulatore, ho affrontato ogni genere di linguaggio. È questo che intendo con ibrido: una bestia un po’ confusa e indefinibile. Mi disse Eco: “Semiologo, filosofo, saggista, romanziere... Hanno cercato di incasellarmi definendomi in cento modi: hanno smesso quando hanno capito che sto a cavallo tra tutti e nessuno mi completa”. Anch’io mi sento così. Un Arlecchino che si è costruito un abito con tante toppe colorate».
Una coincidenza che il suo libro pubblicato a marzo da Einaudi e il film Oppenheimer di Nolan parlino del padre dell’atomica?
«Tra cinema, cultura e realtà i rapporti sono stretti. Libro e film escono in un momento in cui, causa un certo Putin che la evoca in continuazione e il suo ping pong, ci troviamo sull’orlo di un baratro e la paura dell’apocalisse nucleare è tornata prima nell’ordine del giorno. La mia e quella di Nolan sono opere nate ben prima dello scoppio della guerra in Ucraina. Ma con radici, almeno per me, in una riflessione che riguarda la tecnologia: è la grande scialuppa di salvataggio cui ci aggrappiamo in questa epoca, salva vite e le rende migliori, non è affatto così benevola. L’atomica è figlia dell’innovazione tecnologica e della scienza. Ne rappresenta (non da sola) il lato oscuro. Compito degli artisti è quello di diradare quelle zone d’ombra, sentirle prima degli altri e portarle in primo piano».
E la tv le manca in questi mesi estivi? Su quale tema le sarebbe piaciuto intervenire dalla ribalta di Piazza Pulita?
«198 puntate e 5 anni dopo, con momenti memorabili, questo racconto settimanale fa parte di me. Come diceva Arbore, mi ha fatto entrare nelle case della gente e diventare uno di famiglia: è il grande merito della lunga serialità. Di cosa avrei parlato questa estate? Certamente del portavoce della Regione Lazio DeAngelis e della sua improvvida uscita sugli autori della strage di Bologna».
Per dire cosa?
«Che al di là delle valutazioni politiche e giudiziarie (se hai “certezze” su un crimine le denunci in Procura non sui social), mi porta a pensare al peso che diamo alle parole. Al potere che hanno e come non le sappiamo più calibrare».