Corriere della Sera, 12 agosto 2023
Fascismo e comunismo. Le due patologie antidemocratiche che non si riesce a superare
Il 9 maggio 1996, con il suo discorso d’insediamento come presidente della Camera, Luciano Violante compì il tentativo più importante mai fatto dalla democrazia repubblicana (dopo l’amnistia promulgata da Togliatti esattamente mezzo secolo prima) per cercare di eliminare il fattore che fin dal primo dopoguerra continua a dividere la memoria e la vita politica del Paese: il giudizio sul suo passato novecentesco.
U na spaccatura che ancora oggi non cessa di suscitare ogni giorno tentazioni di reciproche delegittimazioni tra le due parti di un’opinione pubblica e di un mondo politico profondamente divisi.
L’oggetto della divisione è ben noto: il fascismo. Ma può essere, è davvero, solo il fascismo? No. La peculiarità della storia italiana – la «complessità» fu il termine esattissimo del discorso di Violante – non è stata infatti forse proprio quella di aver dato vita al fascismo, ma insieme anche a un fortissimo movimento comunista senza eguali in questa parte d’Europa? E non è forse vero che seppure in modi ovviamente ben diversi entrambi – il fascismo e il comunismo – hanno rappresentato due patologie antidemocratiche? Sarebbe bene prenderne atto una buona volta: quanto ho appena detto non corrisponde solo all’opinione della destra. È né più né meno, infatti, quanto ha sempre pensato e continua a pensare la maggioranza degli italiani, anche quelli che con la destra non hanno mai avuto niente a che fare. E cioè che per stare dalla parte della democrazia – dell’unica forma reale di essa, quella liberale – non basta aver combattuto il fascismo: altrimenti anche Stalin e tutti i suoi accoliti sarebbero da considerare dei veri democratici. In certe circostanze si può stare dalla parte giusta anche avendo per il resto idee e principi completamente sbagliati.
Il fatto è che questa duplicità antidemocratica tanto del fascismo che del comunismo, data per scontata negli universi politici (e quindi lessicali) di tutti i Paesi occidentali, in Italia invece non ha molto corso. Da noi è già considerato sospetto qualunque accenno di accostamento/confronto tra i due. Da noi, a cominciare dal piano del linguaggio e dunque della costruzione di una memoria pubblica – entrambi ad ogni effetto decisivi per dar forma ad un comune sentire – vige la regola assoluta dei due pesi e due misure. Un esempio? Giustamente, se un attentato o un delitto terroristico, una strage, sono commessi da qualche militante dei Nar, di Ordine Nuovo, o di qualche altro gruppo eversivo di destra, si parla senza problemi – ripeto, giustamente – di delitto «fascista», di trame «fasciste». Che io sappia, invece, se i medesimi reati sono stati commessi – e Dio sa quante volte è capitato – da militanti di gruppi eversivi di sinistra, mai una volta l’ufficialità repubblicana ha parlato o scritto di delitto «comunista», di trame «comuniste» ecc. Mai: perfino quando – ed il più delle volte è stato proprio questo il caso – i fatti di sangue di cui sopra erano commessi da gruppi che si definivano loro stessi «comunisti», inneggiavano al «comunismo», auspicavano loro per primi nei loro documenti l’avvento di un regime comunista. Le Brigate Rosse, ad esempio, si sono sempre chiamate «Partito Comunista Combattente». Ma qualcuno ha mai sentito parlare a loro riguardo di «trame comuniste», di «delitti comunisti» da parte della stampa che conta o delle Tv che vanno per la maggiore? A me sembra di aver sempre sentito parlare ogni volta solo di trame «brigatiste», di delitti «brigatisti». Ancora: se non ricordo male su nessuna delle tante targhe che nelle vie e nelle piazze d’Italia ricordano l’assassinio di qualche vittima del terrorismo rosso è scritto «vittima delle violenza comunista», laddove non si contano, invece, le targhe che nei casi opposti parlano senza problemi di «violenza fascista». Mi chiedo: non si nutre forse anche di queste cose l’inestinguibile e insopportabile faziosità italiana?
Nel nostro Paese non riusciremo mai a spezzare l’intreccio perverso delegittimazione/negazione fintanto che non ci si convincerà che la storia dell’Italia contemporanea – non quella dal 1922 al 1945, ma tutta quanta, quella dal 1922 al 1991 – ha fatto sì che il discorso sul fascismo non possa che essere al tempo stesso pure un discorso sul comunismo. Che la memoria pubblica e cioè il sentire comune riguardo al primo non possono andare disgiunti dalla memoria pubblica e cioè dal sentire comune riguardo il secondo. Non già perché così la pensa qualche mettimale che cerca di intorbidare le acque o qualche obliquo «revisionista», ma perché questo è il lascito del nostro Novecento. Questa è stata la nostra storia. E perché questo è, io credo, ciò di cui è convinta nel proprio intimo la maggioranza degli italiani: come si vede regolarmente ogni volta che si aprono le urne.
In Italia, il discorso ufficiale sul passato del Paese fatto proprio dalle istituzioni e considerato il solo legittimo, l’ethos pubblico accreditato che le agenzie pubbliche e i maggiori mass media cercano quotidianamente di diffondere e di inculcare riguardo i tanti problemi della nostra società (da quello dei migranti a quello della sicurezza urbana a quello della bioetica) corrispondono solo limitatamente, spesso molto limitatamente, al sentire comune. È lecito dire che un fatto del genere costituisce un tratto di ipocrisia del nostro stare insieme nonché un permanente motivo di grave debolezza delle stesse nostre istituzioni democratiche?
A suo tempo fu oltre che coraggioso, giustissimo l’invito che a proposito dei «ragazzi e delle ragazze di Salò» Luciano Violante rivolse innanzitutto alla sua parte perché si cercasse di capire «le ragioni degli altri». Ma c’è una domanda che un tale invito immediatamente suscita: è possibile capire le ragioni degli altri, e serve, senza riconoscere insieme i torti pro pri?