Corriere della Sera, 11 agosto 2023
Intervista a Jesse Dylan, il figlio di bob
Servirebbe un documentario per capire cosa voglia dire essere figlio di Bob Dylan, le luci e le ombre di avere un genitore che è una leggenda. Per Jesse Dylan, 57 anni, primo dei quattro figli che il cantautore e premio Nobel ha avuto con la prima moglie Sara Lownds, la missione è più che altro quella di «proteggere un artista così grande» e di essere «semplicemente un figlio». Nella sua carriera di regista, Jesse Dylan ha rivolto allora il suo sguardo a un altro personaggio influente e pieno di mistero: quello di Giorgio Soros, imprenditore e filantropo ungherese, naturalizzato americano, protagonista di «Soros racconta Soros», in arrivo domani alle 21.15 in esclusiva su Sky Documentaries, disponibile on demand e in streaming su Now.
Com’è nato il suo interesse per Soros?
«È un personaggio affascinante e ho iniziato ad approfondire la sua storia quattro o cinque anni prima di realizzare il documentario. La sua idea di società aperta è piuttosto complessa, ci vuole un po’ per entrarci, e mi pareva valesse la pena di provare a capire cosa pensa del mondo».
Soros è adorato da alcuni e additato come causa dei mali da altri. Come mai è così controverso?
«Credo che in parte sia perché, perlomeno qui in America, siamo a disagio con le persone molto ricche che provano a usare il loro denaro per influenzare la politica. Inoltre arriva dall’Ungheria, è un po’ misterioso, non fa tante interviste, ed è come se molte persone venissero indotte erroneamente a concentrare il loro odio su di lui».
Che idea si è fatto lei?
«Penso sia davvero una grande persona. Ammiro il fatto che non vuole imporre il suo pensiero, ma ascolta le persone e cerca di metterle nella condizione di fare quel che vogliono fare. Inoltre penso che quando si tratta di filantropia ci sia l’ossessione di misurare: questo va bene se Bill Gates prova a eliminare un virus, si può calcolare quante persone in meno si ammalano, ma quando si tratta di arte e di libertà di esprimersi, come quel che fa George, non si può misurare il suo contributo, eppure è estremamente importante».
Cosa vorrebbe che emergesse dal suo lavoro?
«Volevo uscisse il ritratto onesto di Soros liberato di tutta la complessità che lo circonda e delle controversie su di lui che ritengo infondate. Mi è sembrato importante soprattutto visto quanto è diventato estremo l’odio verso di lui di recente e quanto sia forte la polarizzazione».
Quand’è che ha iniziato a interessarsi alla regia?
«È quel che volevo fare fin da piccolo, quindi dopo l’università ho fatto video musicali, pubblicità, film, poi infine sono approdato ai documentari perché è un modo interessante di esaminare le cose e in generale perché mi piace parlare con le persone».
Regista
Fin da piccolo volevo fare il regista e amo realizzare documentari perché mi piace parlare con la gente
Farebbe un documentario su suo padre?
«Credo che ci abbia pensato molto bene Martin Scorsese, addirittura due volte. Penso che quelle siano le dichiarazioni migliori e definitive su mio padre».
La prospettiva di un figlio sarebbe tutt’altra cosa...
«È vero, ma il ruolo di un figlio è anche quello di proteggere il padre. E poi penso che lui non abbia bisogno del mio aiuto, sa esprimersi molto bene da solo».
Da poco è passato per l’Italia, l’abbiamo intravisto sul palco nella penombra.
«È un po’ come le sue scalette (ride), c’è grande mistero sulle canzoni che vorrà suonare, ma quel che faccio io è semplicemente sedermi e godermi il concerto. È un grande artista e continua a esserlo. Le persone magari vorrebbero sentire alcune canzoni in particolare, ma lui fa quel che vuole. Vieta i telefoni perché credo desideri che la gente viva il momento, insieme. Il nostro modo di avvicinarsi agli artisti oggi è cambiato, ma ci sono ancora alcuni di loro che fanno grande arte e riescono a dare grande ispirazione».
È difficile portare il suo cognome?
«No, assolutamente. Mio padre è una persona buona e generosa, un’anima sensibile, e il mio dovere nei suoi confronti è essere semplicemente suo figlio. La cosa importante è che là fuori ci sono artisti come lui o come Tom Waits, con cui mi è capitato di lavorare, di cui non dobbiamo capire tutto. Non devono spiegarti perché vogliono fare certe cose e tu devi semplicemente ascoltare».
Va accettato il loro mistero quindi?
«Sì, e specialmente in periodi come questo è importante proteggere artisti come loro. È un’abitudine relativamente recente quella di cercare di capire tutto di tutti, ma non è sempre necessario. È importante invece che ci siano ancora grandi artisti come Neil Young o come mio padre che fanno grande musica e basta. È come guardare un Picasso: tu cambi nel tempo, ma il quadro non cambia mai, è la bellezza dell’arte».