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 2023  agosto 11 Venerdì calendario

Intervista a Sergio Rubini

Sergio Rubini e il viaggio dalla Puglia alla Scandinavia: «In Norvegia da Tina. Lei mi lasciò i collant nel letto
In un viaggio in treno per l’Europa, Sergio Rubini conobbe una ragazza norvegese. Macinando chilometri su chilometri, si sono amati, rincorsi, perduti, ritrovati, fino all’addio. Con l’amico d’infanzia Nardino, con cui condivide i ricordi d’infanzia negli Anni 70 a Grumo Appula, nella Puglia più retriva e agricola, entrò in uno scompartimento dove c’erano quattro ragazze. Loro due erano allampanati e di carnagione scura.
Che anni erano?
«Gli anni del Nord Europa, del mito delle bionde svedesi, delle donne libere, della libertà sessuale. Nello scompartimento c’erano due ragazze italiane e due straniere. Io e Nardino familiarizzammo con le italiane che erano state ospiti da lei, Tina Hartvig, la prima donna che ho amato nella mia vita. Donna, insomma… Aveva 17 anni. Bionda, mi sembrava bellissima».
E la puntò.
«Le ronzavo intorno come un moscone. Mi invitò ad andare a casa sua, con una libertà impensabile per una minorenne italiana. Quando ripartii, pensavo non le importasse nulla di me. Però Tina accompagnandomi alla stazione si mise a piangere. La bombardai di lettere d’amore che lei corrispondeva. Io dovevo frequentare il secondo anno di Accademia d’arte drammatica, lei andava al liceo. Senonché zio Mario, il fratello di mio padre, mi diede 100 mila lire che mi permisero di tornare in ottobre ospite da Tina in Norvegia. Lei mi insegnò l’inglese, mi dava le parole. Passammo giorni felici. Presto avvenne un dramma».
Quale?
«Io, ragazzo del Sud, invitato da lei a casa sua, davo per scontato che i suoi genitori sapessero tutto di noi. Avevano una villa su due piani, in un parco. Tina è figlia di uno psichiatra e di una esponente del partito conservatore. I genitori vivevano al piano superiore. Ho vissuto lì dieci giorni. Quando andavo a dormire, sgattaiolavo dal letto e mi infilavo in quello della stanza di Tina. La mattina uscivano tutti. Restavo in quello spazio enorme pieno di vetri, in mezzo alla neve e agli stambecchi che ghermivano le bacche, in una casa sempre riscaldata, con una colazione norvegese enorme, pesce, aringhe, metteva dischi bellissimi mentre se ne stava in pantaloncini corti. Volevo ufficializzare il fidanzamento. Nella mia terra in una situazione del genere si dice fidanzati in casa».
Invece?
«Chiedevo, ma lo sanno i tuoi, gliel’hai detto? Non lo sapevano. Una mattina, svegliandomi, mi accorsi che lei aveva lasciato i collant nel mio letto. Volutamente non li tolsi. La madre a casa prese la figlia ed esclamò, rigida, ferma, senza fare sceneggiate, ho trovato cose tue dappertutto. Non aggiunse altro. La sera riandai nella stanza di Tina come se nulla fosse successo. La casa era di legno, sentii un trambusto al piano di sopra, Tina pregò di andarmene, scappa scappa. Non ci fu il tempo, per le scale vedevo i piedi di sua madre, sentivo lo scricchiolio sul legno».
Una scena alla Hitchcock.
«Mi misi tra le tende trasparenti a guardare nudo verso la notte ghiacciata norvegese. In una lingua per me incomprensibile, sentivo sua madre urlare, ma urlava come possono urlare i norvegesi, senza enfasi mediterranea, le uniche parole che capivo erano Sergio e Italia. Poi la madre si rivolse a me e mi disse in italiano, finito, basta. E mi fece il segno di andarmene. Il padre non si fece mai vedere in quella serata drammatica. Con Tina continuammo a scriverci e a dichiararci amore eterno. La madre aveva lavato a mille gradi le lenzuola. Ebbe un chiarimento con la sua famiglia. Così decise di non venire più in Italia e che era opportuno lasciarmi. Lo fece, mi lasciò. Provai un grande dolore. Avevo mitizzato una storia durata molto poco, ma era fatta di lettere, di un episodio violento con la sua famiglia, di fatti che cementano tantissimo. Mi ha reso inquieto in tutti gli altri rapporti sentimentali. Ero convinto che il più grande amore l’avevo già vissuto. Subito dopo mi misi con Mita Medici, che era un po’ più grande di me ed era una leggenda, una delle ragazze del Piper. Andai a vivere a casa sua. Sulla segreteria telefonica di casa trovai un messaggio di Tina, non so come riuscì ad avere il numero».
Cosa le diceva?
«Che di passaggio a Roma, aveva due ore libere in attesa della coincidenza. Mi precipitai alla stazione. Tina era tutta vestita di bianco, circondata da bambini rom che le gironzolavano intorno. Era il richiamo della foresta. Prima però dissi a Mita, con cui stavo provando uno spettacolo, quello che era accaduto: mi rimetto con Tina e non tornerò più da te. Andammo a vivere in un alberghetto, disse che mi aveva mollato perché le era stata distrutta la sua vita familiare, lei non era ancora maggiorenne… Avevo fatto un casino totale con quei collant. Però lei mi amava, e anche io».
Lei era un giovane attore pieno di sogni, l’incontro con Fellini ancora lontano.
«Ero entusiasta di aver ricominciato la storia con lei dopo quattro anni. Un giorno ripartì per la Norvegia, le promisi che sarei andato a vivere con lei. Era diventata attrice, lavorava al Teatro Nazionale di Oslo. Aveva un suo appartamento, decisi che l’avrei raggiunta. Avrei potuto fare delle regie. La seguii mentre recitava a Finnmark, tra valanghe di neve, oppure a Kautokeino, in Lapponia, dove gli uomini portano strani gonnellini e ti muovi in mezzo alle slitte con le renne. Sentivo il bisogno di telefonare ai miei genitori che mi dissero, stiamo andando in chiesa a festeggiare 25 anni di matrimonio. Mi immalinconii. La nostra storia si guastò perché voleva restare in Norvegia».
Certo Tina non era una persona facile.
«Era problematica, aveva il vizio di alzare le mani, io mi proteggevo ma quando si comincia o quella cosa la stoppi o diventa organica alla relazione. Tina mi lasciò e impazzii, mi aveva già lasciato 5 anni prima. Mi telefonò e disse, non sono sicura che la nostra storia sia completamente finita. Forse dovremmo rivederci, ma da amici, non a casa mia. Mollai uno spettacolo, tutte le mie energie erano rivolte a lei. Ma è maledettamente difficile rivedere la donna con cui sei stato così bene insieme e camminare mano nella mano, mentre lei mi riaccompagnava alla pensione dove avrei soggiornato».
Lei tornò in Norvegia e...
«Dopo un viaggio lungo e complicato, non c’era nessuno ad aspettarmi. Sento Din Don, il signor Rubini è atteso al banco informazioni. C’era una lettera di Tina, tornatene in Italia, non mi cercare. Non avevo un soldo, non sapevo dove andare a dormire. Mi recai alla stazione di polizia nel minuscolo aeroporto di Stavanger con quella lettera e dissi, una vostra connazionale mi ha dato il benservito in questo modo, non ho soldi, cosa devo fare? Mi chiusero nella sala d’aspetto, in tasca avevo una moneta da cinque corone che non bastavano per chiamare l’Italia. Chiamai il padre di Tina, lo psichiatra, tua figlia mi ha mollato in modo terribile, siete degli stronzi, mi sfogai fino a quando cadde la linea perché le cinque corone non bastavano più. Sistemai lo zaino e piegandolo a mo’ di cuscino trovai nella tasca 100 mila lire che non sapevo di avere».
E cosa fece?
«Non me ne fregò nulla. Restai lì, a dormire in sala d’aspetto. Tornato in Italia, usai quei soldi per due biglietti di un concerto, invitai il mio amico Nardino a sentire con me Sting, nel suo esordio da solista dopo i Police. Una serata memorabile».