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 2023  agosto 11 Venerdì calendario

In morte di Michela Murgia

Ida Bozzi e Aldo Cazzullo per il Corrriere
Il cancro, la lotta estenuante. Il matrimonio «in articulo mortis» con Lorenzo Terenzi. A maggio al Corriere raccontò con coraggio della sua malattia. Ieri, la scrittrice Michela Murgia è morta all’età di 51 anni.
Sapeva passare dalla riflessione sulla spiritualità alle analisi sociali e politiche, anche vivacemente polemiche, sulle tentazioni moderne del fascismo. Praticava con naturalezza ostinata l’impegno per la parità di genere, era fiera della sua «famiglia queer» e dei quattro figli «d’anima», come li chiamava, e portava alta anche la bandiera della sua Sardegna e delle civiltà sarde, dei matriarcati ricchi di tradizione e misconosciuti, ai quali aveva dato voce con il suo romanzo più noto, Accabadora (Einaudi, 2009), con cui aveva vinto il premio Campiello 2010.
Si è spenta ieri sera nella sua casa di Roma la scrittrice Michela Murgia, a causa del tumore che l’aveva già messa alla prova alcuni anni fa: era una tra le voci più nuove e influenti della letteratura italiana contemporanea. Era stato importante, quel suo Accabadora, una riscoperta delle culture femminili arcaiche, in seguito praticata anche da altre autrici delle nuove generazioni.
Appena pochi mesi fa, il 6 maggio 2023, aveva rivelato la sua malattia ad Aldo Cazzullo, durante un’intervista al «Corriere della Sera»: un carcinoma ai reni al quarto stadio che le lasciava poco tempo. Lo aveva annunciato in modo più indiretto anche nell’ultimo libro, Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi (Mondadori, 2023), entrato subito in vetta alle classifiche librarie e tuttora ai primi posti, un romanzo di racconti sulle crepe improvvise che stravolgono le esistenze, lutti, dolori, amori spezzati: la prima di quelle storie narrava proprio lo choc della scoperta della malattia.
Nelle ultime settimane, il rapido peggioramento: l’11 giugno aveva annunciato il ritiro dagli incontri pubblici, e a metà luglio aveva sposato in articulo mortis Lorenzo Terenzi, «per avere diritti che non c’era altro modo di ottenere così rapidamente». Sui social aveva pubblicato le immagini delle nozze, chiedendo ai lettori: «Niente auguri, perché il rito che avremmo voluto ancora non esiste. Ma esisterà e vogliamo contribuire a farlo nascere».
Nata a Cabras, in provincia di Oristano, il 3 giugno 1972, dopo gli studi religiosi e l’attività all’interno dell’Azione cattolica, Murgia è stata a lungo insegnante di religione, ma ha svolto diversi lavori precari che le hanno fornito ispirazione per un blog, poi diventato un libro-denuncia, ironico e drammatico insieme, Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria (Isbn, 2008; poi Einaudi, 2017), sul mondo del telemarketing, divenuto nel 2008 un film di Paolo Virzì con il titolo Tutta la vita davanti. Una delle prime voci a denunciare la discriminazione del precariato, e del precariato femminile in particolare.
Einaudi le ha pubblicato nel 2008 una guida letteraria ai luoghi della Sardegna, Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede, ma è con il romanzo del 2009 che Murgia traccia il ritratto della Sardegna davvero sconosciuta ai più: siamo nel territorio della letteratura, quello percorso da Elsa Morante che raccontava l’Italia nel suo La storia, o da Dacia Maraini ne La lunga vita di Marianna Ucrìa.
Accabadora è la storia di un’anziana che in un villaggio sardo dà di nascosto la morte ai malati gravissimi che gliela chiedono, e di una bambina che la donna adotta e che scopre il vero scopo delle uscite notturne della madre adottiva. Il romanzo, che oltre al Campiello ha ottenuto il Dessì e il SuperMondello, porta alla ribalta la scrittrice. E i motivi sono numerosi: è un romanzo con uno stile narrativo vicino al realismo magico; è una scoperta letteraria ma anche etnoantropologica, delle tradizioni della civiltà paesana e sarda e dei saperi femminili più antichi, vicini a scienza e medicina; ed è un libro che sa affrontare, parlando degli anni Cinquanta nella Sardegna più nascosta, un tema attuale e universale, quello dell’eutanasia.
Molti gli epigoni di Murgia, dopo quel romanzo, che ha svelato il ruolo autorevole delle donne nei piccoli mondi della provincia italiana, misconosciuto dalla modernità. Non stupisce se, dopo il libro, Murgia è diventata una delle voci femminili più note e più ascoltate, e anche attaccate, sui media più diversi, in televisione o sui social come opinionista, con polemiche che hanno fatto rumore: una sul suo uso della schwa, la vocale neutra che include tutti i generi. Un’altra, in occasione del matrimonio, nel tweet dell’ex senatore leghista Simone Pillon: «Michela Murgia ha deciso di sposarsi definendo il matrimonio “patriarcale e limitato”. Michela, di alternative ne avevi molte, ma hai scelto il matrimonio». O sabato 5 agosto, quando ha polemizzato con il sindaco di Ventimiglia per l’utilizzo dei vigilantes per impedire ai migranti di usare bagni e fontane al cimitero di Ventimiglia.
Forse per questo i suoi libri si sono fatti sempre più impegnati, ostinati, per perfezionare il racconto del femminile e la costruzione di una società di rapporti più liberi, come liberi erano quelli all’interno della sua famiglia queer: Murgia sembra preferire a lungo il testo saggistico, che racconta il tempo moderno e si fa propositivo, quello di un’attivista. Come in Ave Mary. E la chiesa inventò la donna (Einaudi, 2011), in cui da credente e studiosa di teologia l’autrice conduce un’indagine sul femminile nel Vangelo, ma anche nel pop della pubblicità e dei rotocalchi, alla ricerca di luoghi comuni e deformazioni dell’immagine della donna. O come L’ho uccisa perché l’amavo (falso!) (con Loredana Lipperini, Laterza, 2013), in cui scrive di «amore tossico», per dire che a partire dalle parole si cambia il mondo.
L’attenzione al linguaggio era centrale per Murgia, e non solo a proposito di schwa, anche negli ultimi mesi, con la lucida fermezza di sempre. Parole precise, scelte con cura, come aveva spiegato nell’intervista a Cazzullo, quando raccontava di non amare concetti come «lotta alla malattia», o «combattere il tumore»: «Non mi riconosco nel registro bellico». Bisognava cambiare le parole perché dalle parole vengono i fatti, come ha dimostrato anche in Stai Zitta, e altre nove frasi che non vogliamo sentire più (Einaudi, 2021): la serenità e la forza con cui ha affrontato gli ultimi mesi di sofferenze vengono anche da queste scelte.
Tra le questioni affrontate più spesso da Murgia, la coesistenza di elementi all’apparenza inconciliabili, come fede e libertà sessuale (e femminismo, eutanasia, aborto...), cui ha offerto la sua risposta in God save the Queer. Catechismo femminista (Einaudi Stile libero, 2022): la queerness, intesa non come diversità o stranezza, ma come «soglia» e apertura. Lo aveva sostenuto anche a luglio, in occasione delle nozze, come un lascito: «Il nostro vissuto personale oggi è più politico che mai, e se potessi lasciare un’eredità simbolica, vorrei fosse questa: un altro modello di relazione».
Numerose le presenze nelle antologie: una per tutte, in Sei per la Sardegna (Einaudi, 2014) con il racconto L’eredità. E numerose ancora le prove narrative, come il «corto» L’incontro (Corriere della Sera, 2011; poi Einaudi, 2012), il romanzo Chirú (Einaudi, 2015) e Noi siamo tempesta (Salani, 2019).
Ma lo sguardo alle «soglie», alle storie di libertà delle donne, era tornato anche nel recente Morgana. Storie di ragazze che tua madre non approverebbe (con Chiara Tagliaferri, Mondadori, 2019) in cui Michela Murgia aveva dato voce a dieci donne fuori dagli schemi, Moana Pozzi come Marina Abramovic o Vivienne Westwood. Più un’altra voce, la sua, che alla letteratura mancherà.

Simonetta Fiori per RepSi può scegliere di morire appartati, lontani dalla luce dei media. O decidere di fare gran chiasso, un rumore quasi assordante da rimanerne storditi, forse per distrarsi il più possibile dal pensiero della morte. Solo gli amici intimi conoscono la verità più profonda di Michela Murgia, scomparsa a cinquantuno anni per la progressione di un tumore che era stato al centro della sua ultima campagna pubblica. È morta come ha vissuto, Michela. Aveva fatto della sua vita uno dei megafoni più potenti del discorso mediatico, e fino alla fine è rimasta fedele a un’autorappresentazione in cui era riuscita a sistemare la sua complessa esistenza.È impossibile immaginarla priva di vita perché la vitalità era il motore primo della sua personalità travolgente. «Il senso spietato del non ritorno», così definiva la sua frenesia citando una canzone di Carmen Consoli, una voracità nell’agire che era andata crescendo dopo la malattia. Piccolina, forme morbide, lineamenti dissonanti rispetto al glamour televisivo, Michela Murgia è stata la prima vera star dell’arena digitale colta. Autrice di un solo autentico capolavoro, Accabadora, più che per le sue prove narrative o drammaturgiche sarà ricordata come il personaggio più rappresentativo del passaggio da una società letteraria tradizionale e a una società mediatica in cui conta, più delle idee, la forza di raccontarle e metterle in scena. E dove alla verticalità del sapere subentra l’orizzontalità del rapporto con i lettori, con il superamento di vecchie gerarchie e la nascita di nuovi generi narrativi ibridi.
Dotata di un talento comunicativo fuori del comune, è stata una delle prima a cogliere le potenzialità della rete. E se la tv con Le invasioni barbariche costituì la sua rampa di lancio, i social ne hanno rappresentato l’approdo più naturale, una sorta di habitat spontaneo adattato a misura della sua intelligenza fulminea e affilata, a tratti debordante nell’amore di polemica.
Eccessiva in tutto, Michela Murgia. Eccessiva anche nella sardità etnica esibita soprattutto agli inizi della sua vicenda pubblica. Gli scialli ingombranti, gli abiti folk, la scelta dei temi della sua narrativa: ogni cosa rimandava a una civiltà arcaica, sospesa nel tempo e separata dal continente progredito. Nata a Cabras, il paese dei baroni in laguna, dell’isola incarnava il tratto etnico-identitario, subalterno a un cliché nazionale che la condanna a un’immutabile rappresentazione mitica. Conseguente ne fu l’innamoramento per l’indipendentismo sardista che sfociò nel 2014 nella candidatura a presidente della Regione: una fiammata svanita nel deludente risultato elettorale che la rispedì in continente, lasciando orfano un dieci per cento dell’elettorato sardo. In realtà la sua stessa storia contraddiceva l’astrattezza e l’immobilità del separatismo isolano, nata in una famiglia senza cultura e cresciuta in un’altra che le diede la possibilità della conoscenza e dell’esperienza. La storia dei fillus de anima, meravigliosamente raccontata in Accabadora, nasceva dalla sua vicenda personale, “adottata” già diciottenne da una madre più vigile di quella sua naturale, la zia Annetta capace di guardarla nei suoi molti talenti. «Ognuno di noi cresce solo se è sognato», se è pensato con amore. La frase di Danilo Dolci, incontrato da bambina nella trattoria gestita da suoi, ne avrebbe segnato il destino. «Ero una domanda che richiedeva una risposta diversa da quella ricevuta dalla prima famiglia». In una lingua inconfondibile, asciutta e insieme espressiva, andava tessendo il racconto della sua vita. E nella sapiente manutenzione delle parole era custodito gran parte del suo tesoro.
Quando nel 2009 uscì il bestseller einaudiano che la rivelò al mondo – 250 mila copie solo in Italia, ventuno traduzioni all’estero, premi prestigiosi come il Dessì e il Campiello – Michela Murgia aveva già fatto mille mestieri. Insegnante di religione nelle scuole. Venditrice di multiproprietà. Operatrice fiscale. Dirigente in una centrale termoelettrica, anche portiera di notte.
La sua esperienza nel call center di un importante multinazionale di Milano era finita in un blog e poi nel suo primo libro Il mondo deve sapere, da cui sarebbe stato tratto il film di Virzì Una vita davanti. Codici primitivi e tumultuosi cambiamenti della postmodernità si andavano fondendo nella sua scrittura, rivelatrice di una personalità capace di penetrare lo spirito del tempo. Talvolta di anticiparlo.
Il tema della maternità ritorna anche nel successivo romanzoChirù, che narra il rapporto tra una maestra e il suo allievo più giovane di vent’anni, proiezioneforse di un maternage intellettuale inseguito dall’autrice con il suo interventismo mediatico. Ma siamo già fuori dalla narrativa convenzionale. Murgia rivendica il passaggio a una nuova era letteraria, in cui i personaggi nascono non dall’invenzione solitaria dell’autore ma dal confronto quotidiano in rete con i lettori. Twitter e social hanno colmato la distanza con l’artista, rompendo l’aura di sacralità intorno alla figura somma dello scrittore: un rovesciamento reclamato con preveggenza, non del tutto estranea alle ragioni del marketing. Ancora prima del romanzo, era stato un saggio teologico a rivelare la sua vera vocazione di comunicatrice pop: sin dal titolo, Ave Mary intrecciava il saluto sacro dell’angelo a Maria con una sensibilità femminile contemporanea. Da giovane cristiana dentro la Chiesa, raccontava di aver patito le rappresentazioni limitate e fuorvianti della donna, filtrate attraverso la figura di Maria di Nazareth. Femminismo e teologia si impastavano in «libro più di esperienza che di sentenza», dove tutte le argomentazioni teoriche nascevano dalla concretezza della vita vissuta. Un metodo di lavoro che l’avrebbe resa molto popolare nel mondo del web, specie tra il pubblico femminile, del quale percepiva istintivamente il disagio e la rabbia crescenti per lo scandalo della disparità di genere.
Dotata di antenne sensibili, Michela Murgia sapeva captare temi e tendenze che avrebbero caratterizzato il decennio. Femminicidi, diseguaglianze inaccettabili, frasi fatte che denotano un resistente maschilismo: i suoi interventi pubblici – in forma di saggio, di blog, di drammaturgia teatrale, di tribuna radiofonica, di podcast, di appuntamento televisivo o di rubrica settimanale come l’Antitaliana sull’Espresso guidano importanti battaglie civili al fianco delle donne, talvolta con una punta di veemenza che sconfina nell’ortodossia dell’asterisco o nel dare di roncola contro chi non aderisse pienamente alla sua religione del femminile. Anche sul tema del fascismo, fu abile nell’intercettarne un ritorno strisciante, ma alla sua maniera provocatoria e quasi ludica, inventrice di manuali e di fascistometri per misurare il nero che alberga in tutti noi. Sempre meno “domanda” – come si era definita da ragazza – e sempre più “risposta assertiva”, capace di scaldare i loggioni dei teatri e le platee televisive, Murgia è divenuta l’idolo della sinistra radicale ma ancor più d’una sinistra mediatica incline all’enfasi retorica, attenta ai like e alle mode più che a un’elaborazione politico-culturale für ewig.
Coraggiosissima, ha sfidato gli attacchi di una destra becera che non l’ha mai risparmiata, anche nella sua esposizione fisica. Lei non dava mostra di preoccuparsene troppo. E alle manganellate rispondeva con il suo gusto della provocazione, avvolta in boa di struzzo o impacchettata in sontuosi abiti da sera come alla prima della Scala da lei introdotta nell’anno del Covid.
Umilissima ed arrogante, sapeva sedurre e sapeva anche respingere. Ribelle per ragione sociale, conosceva perfettamente la geografia del potere culturale italiano. E non lo disdegnava, non foss’altro per le sue buone cause. Al di fuori di una ristretta cerchia di amiche, fino all’esplosione finale, ha sempre parlato poco della sua malattia.
Diceva che il rischio era di diventare il suo cancro così evitava di farne il centro di gravità. Ha vissuto i suoi nuovi amori, dopo il matrimonio con un tecnico informatico più giovane. E ha raccolto intorno a sé nuovi compagni e compagne di viaggio, fino all’allegra famiglia queer che le è stata vicina negli ultimi giorni.
Ha anche scritto un libro dedicato alle generazioni a venire, Futuro anteriore, e forse c’era già un presentimento nel definirlo «il mio testamento». E agli ultimi racconti di Tre ciotole ha affidato la sua riflessione sul senso del vivere, coronata da quel matrimonio civile “controvoglia” in articulo mortis che voleva essere anche gesto politico: nel ruolo di “marito” il giovane regista Lorenzo Terenzi, ma sarebbe potuta esserci una donna, «perché nel prenderci cura gli uni degli altri non abbiamo mai fatto questione di genere». Un diverso modo di viverel’amore, oltre la coppia tradizionale, che voleva fosse la sua eredità simbolica: «Un altro modello di relazione, uno in più per chi nella vita ha dovuto combattere sentendosi sempre qualcosa di meno». Una volta paragonò il suo tumore a un signore che s’è dimenticato il giornale sulla panchina. E se torna a riprenderselo? Ha fatto di tutto per non stare in attesa, ma la malattia è tornata a riprendersela. E lei l’ha accolta con tutta la forza vitale di cui era capace e che oggi merita di essere onorata.
Alessandro Gnocchi per il giornaleD i fronte alla morte, e al suo mistero, cadono come foglie secche le polemiche dettate non dall’ideologia, che sarebbe troppo, ma da visioni profondamente diverse del mondo. La prima reazione è sempre la preghiera, la seconda è cercare di capire come ci interroghi, cosa ci chieda, la morte di una persona che abbiamo conosciuto e non abbiamo conosciuto. Incrociata magari, su una terrazza di un festival letterario, ma conosciuta soprattutto attraverso le sue parole e i suoi libri.
Michela Murgia è morta ieri sera. Era malata da tempo e aveva deciso di rendere una testimonianza attraverso il suo calvario. Dal momento dell’annuncio, aveva esternato il suo dissenso, confinante col disprezzo, per l’Italia, che giudicava in mano a un gruppo di fascisti guidato da Giorgia Meloni. Aveva poi criticato aspramente il concetto tradizionale di famiglia, contrapponendole la «famiglia queer», ovvero una famiglia allargata, fondata sulla scelta di compagni e compagne di strada come Roberto Saviano, Nicola Lagioia, Chiara Valerio e altri. Si era però sposata, alla fine, con l’attore Lorenzo Terenzi. pur non credendo nel valore del matrimonio ma per garantire alla sua famiglia queer allargata’ quel che lo Stato ancora non garantisce per legge, definendo le sue nozze «un atto politico». Cristiana a modo suo, aveva anche militato nell’Azione cattolica, per poi pubblicare un «catechismo femminista»; a proposito, era anche femminista a modo suo, intravedeva un profilo maschile nelle donne che non le piacevano, come appunto l’attuale presidente del consiglio; scrittrice a modo suo, aveva combattuto una battaglia per introdurre nella lingua italiana la schwa, un suono neutro, né maschile né femminile, per combattere il patriarcato, il privilegio dell’uomo, anche nelle parole. Come scrittrice aveva esordito con un romanzo, forse il suo migliore, sul precariato, assimilato, con successo, alla semplice schiavitù, e piagato dal ricatto, oltre che dalla povertà: Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria (ISBN, 2006). Conosceva bene il lavoro. Era stata insegnante di religione, poi portiera di notte e venditrice di multiproprietà, consulente fiscale e dirigente in una centrale termoelettrica. Il libro ispirò la sceneggiatura del film Tutta la vita davanti con Sabrina Ferilli, Isabella Ragonese, Elio Germano, Valerio Mastandrea e Massimo Ghini diretti nel 2008 da Paolo Virzì.
La vera notorietà arriva però con il romanzo Accabadora (Einaudi, 2009), una storia ambientata nella sua Sardegna. Il titolo evoca la figura sarda, arcaica o leggendaria, di colei che dà la morte alle persone in fine di vita per una sorta di pietosa proto-eutanasia. Il romanzo fece incetta di premi (Campiello e Mondello in un colpo solo) e rimase a lungo nelle classifiche di vendita. Fortissimo era il legame con la sua terra sarda, al punto che la scrittrice aveva anche aderito a un partito separatista. In queste settimane, nella top ten, c’è invece il memoriale Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi, (Mondadori, 2023), un consistente segnale di come la Murgia avesse ritrovato il pubblico dei lettori.
Tra le sue altre opere un saggio sul femminicidio, L’ho uccisa perché l’amavo. E un saggio sulla deriva a suo dire autoritaria delle istituzioni italiane: Istruzioni per diventare fascisti.
Michela Murgia ha incarnato lo spirito dei tempi: politicamente corretta ma anche aggressiva in più di un caso; partigiana a sinistra senza eccezioni; credente orgogliosamente fai-da-te dopo un’istruzione cattolica; bandiera della fluidità sessuale; contro la censura ma capace di chiedere di bandire Massimiliano Parente dall’editoria che conta; antifascista ma non anticomunista con la medesima forza. Sono tutte, o quasi, le idee che ci raggiungono attraverso i libri e i media. Sono le idee della maggioranza degli intellettuali italiani, tra i quali Murgia è stata una figura esemplare. Già sentiamo le voci dei politici rivendicare l’eredità della scrittrice. Ecco, in tutto questo parlare di «diversità» che senz’altro accompagnerà la morte di Murgia, vorremmo capire in cosa consista lo scarto rispetto alla visione largamente maggioritaria nella cultura di sinistra.
Ci piace però ricordare un suo aspetto fuori dagli schemi progressisti: l’attrazione per le radici ancestrali della sua terra e il piglio addirittura indipendentista. Ricordiamo che fu candidata a presidente della Sardegna, ottenendo poco più del 10% dei consensi elettorali alle elezioni regionali del 2014; poi con la Sinistra e la lista formata da Si, Rifondazione comunista e l’Altra Europa che alle elezioni europee non raggiunse il 2% dei voti. Il legame con la Sardegna era stato ribadito anche a teatro: nel 2018 debuttò come attrice interpretando Grazia Deledda in Quasi Grazia.
L’ultima battaglia, quella con il cancro, non poteva essere vinta ma è stata combattuta con coraggio e con una forte esposizione sui social media. Michela Murgia aveva soltanto 51 anni. Era nata a Cabras in provincia di Oristano il 3 giugno del 1972. A maggio aveva annunciato di essere malata in fase terminale. Ora si ricongiunge con la sua terra, che le sia lieve.