Corriere della Sera, 10 agosto 2023
Intervista a Vittoria Belvedere
«Avrò avuto 7 o 8 anni e ho subìto vero e proprio razzismo, perché ero meridionale: una calabrese emigrata in Brianza». Vittoria Belvedere è nata a Vibo Valentia, da una famiglia di contadini. Aveva pochi mesi, quando si trasferirono a Vimercate. «Nel palazzo dove abitavamo – racconta l’attrice – c’erano tutte famiglie brianzole e, se in cortile giocavo con gli altri bambini, le loro mamme li portavano via dicendo: non giocate con lei, è una terrona. D’altronde già il mio nome era un marchio di meridionalità, e poi mio fratello si chiamava Santino, mio padre Giuseppe, mia madre Maria...».
Ne ha sofferto molto?
«Bè, certo non sono cose che fanno piacere, a volte mi vergognavo, ma in verità non ne ho sofferto poi tanto, in fondo non mi sono mai sentita veramente messa in un angolo. Prima di tutto avevo e ho una famiglia molto solida alle spalle che mi proteggeva, dicendo di non dar retta alle malelingue... inoltre avevo comunque un’amichetta con cui giocavo senza problemi. Mi è capitato più volte di sentirmi una terrona calabrese e, col passare degli anni, ho vissuto, come tanti altri ragazzi, episodi di bullismo. Però crescendo, mi sono resa conto che i bambini che mi facevano i dispetti in realtà non agivano per cattiveria... insomma, non era colpa loro, ma dei loro nuclei familiari... E, ripensandoci, mi viene da sorridere. Non mi sono mai permessa di rinnegare le mie origini, anzi, ne vado orgogliosa».
Quando è diventata famosa, anche e soprattutto grazie alla sua partecipazione al Festival di Sanremo, quelle mamme le ha più incontrate?
(Ride) «C’è sempre una ribalta nella vita... E pensare che volevo rifiutare la proposta di Pippo Baudo, non mi sentivo all’altezza del ruolo, non pensavo di essere adatta alla diretta televisiva, al vastissimo pubblico, ai giornalisti, alle conferenze stampa... Ripetevo a Pippo: non sono capace di farlo! E lui: non ti preoccupare, ti proteggo io... E mi sono lasciata trascinare. Inoltre, una troupe della Rai era andata nel paese originario di mio padre, San Costantino di Briatico, vicino a Vibo Valentia, per intervistare i miei nonni, che ovviamente erano stupefatti e che, siccome parlavano in dialetto calabrese, venivano tradotti in italiano dalle mie cugine!».
In altri termini, è diventata famosa per caso?
«La mia vita lavorativa è stata tutta un caso: soprattutto i primi anni della carriera sono stati come un fiume in piena, si è aperta la diga, ed è venuto giù con una forza immensa. Mi sono sentita trasportata dal successo, i primi tempi ho scelto pochissimo le cose da fare, mi sono capitate».
E ha iniziato come modella...
«Sì, ma mi mancavano pochi centimetri per fare l’indossatrice...».
Cioè?
«Sono alta un metro e 72, ma per fare le passerelle dei grandi stilisti occorre essere almeno un metro e 75. Quando mi proponevo, rispondevano: ci dispiace, sei troppo bassa. Potevo fare però la fotomodella.... La moda è sempre stato il mio sogno nel cassetto».
E ha posato nuda per il grande fotografo Bruno Oliviero...
«Non era ovviamente una foto porno, era un “vedo-non vedo” artistico per la copertina di un suo libro. Lui era davvero un grande fotografo, con un pessimo carattere... Alla presentazione del volume arrivai con dieci minuti di ritardo: sono una puntualissima, arrivo sempre in anticipo agli appuntamenti, ma quella volta avevo sbagliato strada e, quando mi presento, mi scuso, ma lui mi tratta malissimo. Comincia a ringhiare con frasi tipo: come ti permetti, chi ti credi di essere! E io sbotto a piangere: gli rispondo per le rime e me ne vado sbattendo la porta».
Da modella ad attrice, senza aver frequentato una scuola di recitazione...
«Prima di tutto ho avuto la fortuna di incontrare Paola Petri, vedova di Elio Petri, che non si è limitata a essere la mia agente, è stata una seconda madre, mi ha dato sempre consigli preziosi per crescere nel mio lavoro e non solo: mi affiancò un attore di teatro per studiare dizione e infatti, grazie a questo, ho completamente azzerato sia l’accento calabrese, sia soprattutto quello milanese. Poi ho incontrato dei maestri sul set: oltre a grandi registi come Florestano Vancini, Mauro Bolognini o Giorgio Capitani, anche colleghi preziosi e generosi come Franco Nero, Barbara De Rossi e, per esempio, il mitico Peter O’Toole...».
Cosa le ha insegnato l’attore britannico?
«Nella miniserie “Augusto, il primo imperatore”, impersonavo sua figlia Giulia. Era una coproduzione internazionale e si recitava tutto in inglese, lingua di cui avevo una conoscenza scolastica, quindi un po’ basica: un conto è parlare, un conto è recitare. Però mi preparavo con grande scrupolo, studiando in anticipo tutte le scene che dovevo girare. Ma un giorno, gli sceneggiatori me ne cambiano totalmente una all’improvviso... Non sapevo come fare, avevo poco tempo per studiarla a dovere... Entrai in crisi e Peter, accorgendosi della mia disperazione, mi porta nel suo camerino e mi regala un insegnamento straordinario. Mi dice: adesso ascolta questa canzone. Prese le battute del mio copione che avrei dovuto recitare e comincia a cantarle... poi aggiunse: concentrati sulla melodia e vedrai che memorizzi il testo... e così fu. Un esercizio che mi è servito anche in seguito, su altri set, con altre lingue straniere... ho recitato in francese senza conoscere bene la lingua... Insomma, grazie a Peter ho imparato una forma di allenamento, diciamo, tecnico-pratico molto utile, che non avrei minimamente immaginato. E ho imparato anche un’altra cosa fondamentale».
Il grande collega
In «Augusto, il primo imperatore» recitavo in inglese ma un giorno sono andata in crisi: Peter O’Toole mi ha aiutato facendomi cantare le battute
Quale?
«Il grande attore, un mostro sacro della scena internazionale, un extraterrestre dell’iperuranio artistico, che credevo inarrivabile... e invece mi sono resa conto che personaggi come lui sono semplici, se necessario si mettono a disposizione senza alcun problema, sono molto più umili di certi miei colleghi o colleghe che, pur essendo dei “nani” rispetto a questi “giganti”, si indispettiscono se la produzione non mette loro a disposizione la macchina con l’autista...».
La bellezza, per lei, ha rappresentato un problema? Nel senso: bella e poco brava...
«Sono sincera: i primi anni ho faticato a farmi accettare, anche perché provenivo dal mondo della moda che, in ambito artistico, non è molto considerata. E poi, caratterialmente, sono una timida».
Timida, ma a vent’anni ha debuttato in un film erotico: «Graffiante desiderio»...
«Sì, e ne ero la protagonista, nel ruolo di una giovane, affascinante schizofrenica. Un’avventura davvero singolare... il film nasceva sulla falsariga di Luna di fiele di Roman Polanski».
Sul set ha mai ricevuto proposte indecenti?
«Al di là di qualche corteggiamento, per ben due volte in maniera pesante da parte di due produttori importanti, di cui non posso rivelare i nomi. La prima volta avevo 18 anni e lui intorno ai 70... Era apparentemente un gran signore e mi fece intendere che, per fare carriera nel nostro mondo, occorreva avere qualcuno alle spalle su cui contare. Avevo già partecipato a un suo film e una sera, mentre mi accompagnava in hotel, azzardò delle avances... Io, elegantemente, lo respinsi, scesi dall’auto e non l’ho mai più chiamato... L’altro, invece, produceva una serie importante, per la quale avrei dovuto fare, a breve, un provino. Andammo nel suo ufficio, per prendere il copione su cui dovevo prepararmi. Ci sedemmo sul divano e lui, con la scusa di porgermi il testo, mi è saltato letteralmente addosso. Era un omone, alto e pesante, non so come sono riuscita a respingerlo, a togliermelo di dosso... A un certo punto gli ho detto: perdonami, forse ti ho fatto capire cose sbagliate... forse hai pensato che ero disponibile... Poi me ne sono andata e, nei giorni successivi, non mi sono presentata al provino».
Lei si sentiva in colpa? Credeva di averlo provocato sessualmente?
«Non mi ero presentata in minigonna e con la camicetta sbottonata... sono una tipa mascolina, non femminile, e anche quella sera indossavo i pantaloni, il maglione accollato... Però purtroppo noi donne ci sentiamo spesso, a torto, colpevoli di provocare il maschio arrapato... è un nostro assurdo limite».
Lei è sposata dal 1999 con lo stesso marito: Vasco Valerio. E ha tre figli: un record per un’attrice?
«In effetti, i matrimoni nel nostro ambiente durano poco, pur avendo colleghe con legami altrettanto longevi, ma stanno diventando sempre più rari».
Qual è il segreto di un’unione tanto duratura?
«È la complicità, la sincerità e l’umiltà di sedersi a un tavolo per confrontarci serenamente, se qualche cosa non va bene, e per trovare insieme la strada giusta, per risolvere il problema. Vasco mi ha sempre sostenuto, non ha mai messo il bastone tra le ruote della mia carriera, non mi ha mai messo davanti al dilemma: scegli me e i figli, oppure il tuo lavoro. Anzi, a volte ha fatto lui il “mammo”... Ogni decisione la prendiamo di comune accordo, discuto con lui le scelte che devo compiere».
Una moglie e soprattutto una madre tenace...
«Dopo il primo figlio, Lorenzo, volevo assolutamente diventare nuovamente madre. Però avevo un grosso problema: la tiroide malata e i medici mi avevano seriamente sconsigliato una seconda gravidanza, per timore di aggravare il problema, il secondo figlio poteva far degenerare la situazione. Ma sono calabrese: mio padre ha sette fratelli, mia madre nove, mi piacciono le famiglie numerose e ne sognavo una per me. Mi informai e seppi che non avrei messo a repentaglio la vita del nascituro... così è nata Emma, ma dopo la sua nascita la tiroide è praticamente scoppiata. Mi è stata asportata e poi è nato pure Niccolò!».
Non solo cinema, anche tanto teatro: recentemente il successo di «Bloccati dalla neve», insieme a Enzo Iacchetti.
«Adoro lo spettacolo dal vivo, pur avendo il terrore: se dimentico una battuta che succede? Per fortuna con Enzo è filato tutto liscio. Nella prossima avventura teatrale, saremo tre attrici: io, Benedicta Boccoli e Gabriella Germani in Donne in pericolo un thriller sotto forma di commedia di Wendy MacLeod, con la regia di Enrico Maria Lamanna. Le donne sono sempre in pericolo, ma più forti che mai».