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 2023  agosto 10 Giovedì calendario

Intervista a Richard Ford

Richard Ford ha dato alle stampe la quinta e conclusiva avventura del suo alter ego Frank Bascombe, scegliendo come titolo Be Mine: l’ironia tagliente e spesso nera con cui il personaggio ha reagito alle ferite della vita, lascia il posto a un anelito di calore e solidarietà. In questo nuovo romanzo, toccante e mai sentimentale, Bascombe ha raggiunto 74 anni, cinque meno di Ford, e intraprende insieme al figlio Paul, gravemente malato, un viaggio in macchina in una clinica del Minnesota e poi verso il monte Rushmore. Frank non ha perso l’abitudine di corteggiare le donne e di guardare il mondo con filosofia: entrando in uno squallido locale spiega: «è sempre interessante capire cosa rende terribile un posto» e più tardi «non tutte le storie finiscono bene, ma nell’oscurità puoi trovare qualche luce», un’affermazione che sembra riassumere tutta la sua poetica e trova più di un punto di dialogo con quella di Cormac McCarthy.
In questo capitolo finale, dove tutto lascerebbe pensare di assistere alla morte del protagonista, ci troviamo invece di fronte ai momenti che precedono quella del figlio: Frank è consapevole di dover affrontare ancora una volta l’imprevedibilità dolorosa dell’esistenza. L’incombenza della morte li ha riavvicinati dopo averli accompagnati da molto tempo: Frank ha perso la moglie e un altro figlio, eppure, nonostante tutto, il libro ha spesso toni da commedia. «Non esiste nulla che non possa essere visto con ironia» mi risponde, con un tono divertito «ed esiste una fondamentale differenza tra la serietà e la seriosità: prendersi sul serio è un errore uguale e contrario a non prendersi sul serio».
Lei è ateo: cosa rappresenta la morte?
«La fine. Spero che in quel momento non mi renda conto di aver sbagliato tutto. E comunque sarebbe troppo tardi».
La prima e l’ultima sezione del romanzo è intitolata “Happiness/Felicità.”
«Quando ho iniziato il libro, avevo in mente di raccontare la storia di un uomo che cerca la felicità nelle peggiori condizioni. Ho scritto la parola “felicità” e quel termine non mi ha più abbandonato: forse anche per questo si avverte un senso di commedia».
Frank Bascombe ricorda un giorno in cui la madre gli ha chiesto se era felice. Lui non ne era affatto certo, ma lei era sul letto di morte e quindi risponde “sì”.
«Credo che anche quello faccia parte della ricerca della felicità».
Lei cita Philip Larkin: “Non sì può essere felici a meno che non si sia qualcun altro”.
«In realtà non sono d’accordo, Larkin risponde con una battuta a una domanda esistenziale. Ha sempre cercato di abbandonare se stesso e una volta ha dichiarato: “Non potete immaginare come vorrei scrivere poesie di altro tipo”».
John Banville la definisce un “esistenzialista rilassato”: si riconosce?
«No, ma John, oltre a essere un ottimo scrittore è un amico, e vede elementi che probabilmente io non sono in grado di riconoscere».
Il viaggio termina al monte Rushmore: è vero che una volta lo ha visitato nel giorno di un raduno dei sostenitori di Trump?
«Sì, e ho aspettato che andassero via prima di visitarlo. Mi sono reso conto allora che il sogno di Trump è avere il suo volto scolpito nella montagna: la tipica iconografia corrotta di certi repubblicani».
Lei ha alternato la scrittura di racconti a quella di romanzi al giornalismo sportivo.
«Non appartengo alla categoria di chi guarda dall’alto in basso altre forme di scrittura. La differenza di fondo è che nelgiornalismo deve essere accurata l’organizzazione dei fatti, mentre nella narrativa l’organizzazione deve essere convincente».
Un altro elemento che caratterizza la sua esistenza è quello del viaggio: lei è nativo del Mississippi ma ha vissuto in Montana, Maine, Wyoming, California, Michigan, Louisiana, New York…
«Sono cresciuto a Jackson, nel Mississippi, e avevo due scelte: credere che fosse il centro del mondo o fuggire e capire cosa è l’America e il mondo. Ho optato per la seconda».
Una volta mi ha raccontato di essere ateo perché in qualche modo ritiene che la scrittura rappresenti la sua religione.
«È così, e penso che le cose siano strettamente collegate. Fino a ventun anni ho frequentato la chiesa presbiteriana, andando a messa anche il mercoledì sera, dove cantavo nel coro. Poi non ho più sentito quel salto indispensabile che ti può dare soltanto la fede, e ho trovato invece un appagamento nella scrittura. A questo proposito voglio citare una frase di Wallace Stevens: “Nei periodi in cui il credo latita, è compito del poeta provvedere a soddisfare la fede in misura e stile”».
È d’accordo con Henry James quando afferma che “è l’arte a fare la vita e a renderla importante?”
«Assolutamente sì: noi viviamo in una costante corrente di esperienze, del tutto caotiche.
L’arte dà ordine attraverso l’immaginazione, facendoti capire l’importanza dei limiti».