La Stampa, 10 agosto 2023
Vivà è morta ad Auschwitz. Una biografia
Sulla pagina del suo diario del 29 maggio 1945, Pietro Nenni appuntò una notizia che mai avrebbe voluto scrivere: «Una lettera di Saragat a De Gasperi conferma la notizia della morte di Vittoria. Ho cercato di dominare il mio schianto e di mettermi in contatto con De Gasperi che però era al Consiglio dei ministri». Appena finita la riunione, De Gasperi si diresse a piedi verso la sede dell’Avanti! e «in quel breve tratto pensai che cosa un padre (aveva tre figlie, ndr.) potesse dire a un altro padre. A furia di pensare arrivai alla porta, feci la scala, arrivai all’ufficio: aveva già capito tutto. Ci trovammo abbracciati, a piangere assieme».
Vittoria, affettuosamente chiamata Vivà, era la terza delle quattro figlie (Giuliana del 1911, Eva, detta Vany, del 1913 e Luciana del 1921) di Nenni e di Carmen Emiliani. Vivà aveva concluso la sua vita terrena dopo sofferenze e umiliazioni disumane il 15 luglio 1943 nel campo di sterminio nazista di Auschwitz-Birkenau.
Con uno stile narrativo asciutto e coinvolgente, Antonio Tedesco, direttore scientifico della Fondazione Nenni, ne ricostruisce la vita e il tragico epilogo nel libro Vittoria Nenni – n. 31635 di Auschwitz.
Vittoria era una giovane donna italiana che scelse di combattere a fianco dei francesi contro gli occupanti nazisti e i collaborazionisti. Era nata ad Ancona il 31 ottobre 1915 quando il padre era al fronte, partito volontario da convinto interventista repubblicano.
Il giorno del suo undicesimo compleanno, il 31 ottobre 1926, Mussolini uscì illeso da un’attentato a Bologna e Vittoria, di ritorno da scuola, si ritrovò sulle scale del palazzo di Milano dove abitava faccia a faccia con un gruppo di fascisti che avevano appena finito di devastare l’abitazione della sua famiglia. Interrogata su dove fosse il padre, Vivà rispose che lo ignorava e per tutta risposta gli squadristi le strapparono i libri di mano. Nel rogo dei mobili di casa Nenni scomparvero per sempre anche «i suoi regali, i suoi giocattoli, i suoi libri di favole ai quali teneva tanto».
Una bambina ancora spaventata salutò poche settimane dopo il padre in partenza per l’esilio clandestino in Francia. La madre e le quattro figlie lo raggiunsero a Parigi, nell’agosto 1927, dopo un’avventurosa fuga in treno passando per Ventimiglia-Mentone. Nei primi anni della vita parigina, Vivà era «l’immagine della spensieratezza», una ragazza «che fa colpo con una massa di capelli ricci e scuri». Si innamorò di Henri Léon Marcel Daubeuf, di quattro anni più anziano, proveniente da una famiglia piccolo borghese aliena dalla politica militante. Il 4 gennaio del 1936 Vivà e Henri si sposarono in una Francia libera e democratica con al governo la sinistra del Fronte Popolare, ma di lì a poco le cose sarebbero cambiate e in peggio.
Nel giugno 1940, Hitler decise di attaccare la Francia e in due settimane i nazisti sbaragliarono l’esercito nemico ed entrarono trionfalmente a Parigi il 14 dello stesso mese. Iniziò per i fuoriusciti antifascisti e le loro famiglie una nuova fase drammatica dell’esilio, isolati nella Francia collaborazionista di Vichy, costantemente braccati e spiati.
Vivà e il marito, nell’agosto 1940, decisero di tornare a Parigi dove Henri iniziò ad occuparsi della piccola stamperia di proprietà di Nenni. Ben presto, durante le ore notturne, nella tipografia si iniziò a stampare materiale di propaganda della resistenza francese, a cui Vivà, pur non essendo iscritta ad alcun partito, si era avvicinata a partire dal secondo semestre 1941.
Il 17 giugno 1942 i poliziotti francesi irruppero in casa dei coniugi Daubeuf e arrestarono Henri, mentre sorprendentemente Vivà venne lasciata in libertà. Avrebbe potuto mettersi in salvo. Scelse invece di rimanere vicino al marito, ma il 25 giugno fu arrestata anche lei. Trasferiti entrambi nel carcere-fortezza di Romainville, il principale penitenziario di Parigi, l’11 agosto, insieme ad altri 95 detenuti, Henri Daubeuf fu passato per le armi.
Per le oltre 4.000 prigioniere donne, tra cui Vivà, i tedeschi avevano in mente altri progetti.
Pietro Nenni apprese dalla figlia Eva dell’imminente deportazione della figlia e scrisse sul diario: «Brutte notizie della mia Vittoria. A quest’ora sarà già in procinto di partire verso la Germania. Verso quale destino?». Il 24 gennaio 1943, 230 donne, tra cui la figlia di Nenni, furono caricate su un carro bestiame con destinazione Polonia, in una località a loro sconosciuta, Auschwitz: soltanto 49 di loro si salveranno.
Iniziò così il viaggio senza ritorno di Vivà nell’inferno concentrazionario nazista, in cui rischiò di finire anche il padre, arrestato dalla Gestapo l’8 febbraio 1943 e alcuni mesi dopo consegnato alle autorità italiane, su espressa richiesta di Mussolini.
La morte di Vittoria Nenni sopraggiunse per una febbre tifoidea.
«Da quando la nostra Vivà ci ha lasciati – avrebbe confessato Nenni – non c’è giorno, e forse non c’è ora, in cui non mi dica che forse è per causa mia, o per lo meno del mio genere di vita, che ella è stata presa dall’ingranaggio che l’ha schiacciata»