Il Messaggero, 10 agosto 2023
Intervista a Roberto Jucci
«Nel volume c’è un insegnamento particolarmente importante: le cose belle si fanno con fatica e anche osando. Penso che i giovani possano apprendere molto». Così Romano Prodi commenta il volume Rivelazioni. Memorie, curiosità e fatti ignoti della nostra storia (edizioni Porto Seguro) di Roberto Jucci, classe 1926, Generale di Corpo d’Armata in congedo, ex Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri.
«La severità di Jucci è temperata da una profonda umanità», sottolinea Gianni Letta. Memorie personali e storia del Paese si intrecciano nel libro di Jucci che, dagli anni dell’Accademia arriva all’addio all’Arma e oltre, passando per lo scontro con il Kgb, il colpo di stato di Gheddafi, il rapimento di Aldo Moro e tanto ancora. I ricavati della vendita saranno devoluti all’Opera Nazionale di Assistenza per gli Orfani dei Militari dell’Arma dei Carabinieri. Abbiamo raggiunto il generale nella sua casa romana, ai Parioli.
Generale, come mai ha deciso di scrivere questo libro?
«Il libro, di fatto, è la storia d’Italia, dal 1945 ad oggi. Credo che pochi possano scriverne, avendola vissuta in prima persona. Ho ricoperto incarichi di ogni tipo. Quando si vivono gli eventi, si agisce con la foga del momento. Se si rileggono a distanza di anni, molti aspetti si comprendono meglio».
Perché si è arruolato giovanissimo?
«Mio padre era ufficiale, ho vissuto in caserma fino a 15 anni, quando ho intrapreso la carriera militare entrando nella Scuola Militare “Nunziatella” di Napoli. Aspiravo a diventare comandante del Reggimento Nembo dei Paracadutisti. Eventi e fortuna mi hanno portato molto avanti».
Si trovò a vivere lo scontro con il Kgb.
«L’ammiraglio Eugenio Henke mi mise a capo della sezione responsabile del controspionaggio. Fu un periodo difficile. Il Kgb prosperava. Portai a termine un’operazione molto grossa, l’arresto dei coniugi Rinaldi. Arrivammo a scoprire i luoghi dove i russi avrebbero dovuto paracadutare armi».
Tra le spie che fece arrestare, una studentessa.
«Hanrietta. Era in Italia per il servizio ungherese. Quando la interrogammo confessò tutto. Piangeva. Per consolarla le dissi che se avesse avuto bisogno di qualcosa, avrei cercato di aiutarla. Qualche anno dopo mi chiamò un amico e me la passò, era stata graziata, lavorava e aveva bisogno di testimonianze per la cittadinanza italiana. La aiutai. Ma quando mi chiese un incontro per ringraziarmi, dissi di no. Si sarebbero instaurati rapporti di amicizia e sarebbe stato inopportuno visto il passato».
Fu anche in Libia, dopo il colpo di stato di Gheddafi. Come furono i rapporti con il colonnello?
«Gheddafi voleva espellere tutti gli italiani, mandandoli in campi di concentramento. Riuscii a farlo desistere, gli feci capire che avremmo mandato Marina e paracadutisti. Per fortuna ci credette, altrimenti non so come sarebbe andata».
E il governo?
«Organizzai un contatto con Aldo Moro, altri avevano tentato fallendo. Fu fruttuoso. Fui autorizzato ad assicurare a Gheddafi che l’Italia non avrebbe fatto attività contrarie al governo libico. E quando scoprii che un gruppo armato, in partenza dal nostro Paese, voleva far cadere il suo governo, sventai l’attacco. Gheddafi ebbe per me una venerazione».
Ha parlato di Moro. Come ha vissuto il periodo del rapimento?
«Cossiga mi incaricò di organizzare le teste di cuoio che potessero liberare Moro. Mi diede sette giorni per formare il gruppo. Selezionai gli uomini migliori, li addestrai. Purtroppo non ci fu modo di entrare in azione. Quando ci dissero che Moro era stato ucciso, piangemmo».
Avevate un rapporto speciale.
«Mi commosse quando, dopo il colloquio con Gheddafi, mi chiese una relazione e non corresse una parola. La sera lo accompagnai a casa, era notte, dormivano tutti e lui non aveva mangiato. Andai a prendere dei tramezzini. Ogni volta che mi vedeva Moro mi ringraziava. Era un vero uomo di Stato».
E la lotta alle Brigate Rosse?
«Creai sezioni anticrimine di Carabinieri, in ogni regione, appoggiandomi ai comandi di stazione. Di tutti i membri delle brigate Rosse conoscevo storia e debolezze. A Roma controllai tutti i covi, erano dieci o dodici. Quando la direzione strategica delle Brigate Rosse si riunì in città, ordinai che 500 carabinieri assalissero quei covi. Effettuammo molti arresti».
Affrontò anche la criminalità organizzata.
«Scoprii che in Sicilia, Puglia e Calabria i carabinieri erano originari dei luoghi in cui si trovavano. Questo poteva creare situazioni difficili. Cominciai a spostare gli ufficiali. In Sicilia inviai un tenente colonnello e due sottufficiali che rispondevano solo al Comando Generale. Misi a segno l’arresto del boss Michele Greco, detto il Papa».
L’addio all’Arma fu molto doloroso?
«Non fu facile assolutamente. Il giorno stesso mi proposero la presidenza di quello che oggi è Leonardo. Non accettai perché avrei dovuto colloquiare con le strutture militari, ma in altra veste. Lo trovai inopportuno. Prodi mi disse che la mia era una scelta impensabile ma dopo una settimana mi chiese dove volessi andare. Scelsi Trieste. Poi, due anni dopo, mi offrì la presidenza dell’Italcable e accettai. C’erano quasi tutti ufficiali di Marina, la mattina si faceva l’alzabandiera. E poi passai alla Finmare».
E arrivarono nuovi incarichi.
«Nel 2000 fui inviato a Palermo, per organizzare una conferenza per l’Onu sulla criminalità. Portai 180 capi di Stato a Corleone, mi dissero che ero pazzo, ma volli dimostrare che avevamo il controllo della Sicilia. Andò tutto bene. Poi fui nominato Commissario per l’emergenza Acqua in Sicilia e, dopo, per la bonifica del fiume Sarno».
Una vita al servizio dello Stato?
«Sempre. È stata bella, emozionante e impegnativa. Ringrazio il Padreterno per avermi dato questa possibilità».