Avvenire, 10 agosto 2023
L’ossessione per i punti e le virgole
Strano libro questo. Tre racconti brevi a tema ortografico raccolti in un maneggevole volumetto da Marietti 1820 e annotati in fine da Roberto Alessandrini: Anton Cechov, Iginio Ugo Tarchetti, Emilio De Marchi, Il punto esclamativo e altri incubi ortografici (pagine 66, euro 8,50). Con qualche possibile morale da trarre in lettura. Il primo racconto è del grande scrittore russo, con protagonista l’umile scrivano Efim Fomic Perekladin.
Cos’è che scatena il suo demone? Gli viene rimproverato di non saper utilizzare correttamente il punto esclamativo.
Un rimprovero mossogli il giorno di Natale. Ottima occasione per cadere nel più insensato degli incubi: osservare la ribellione animata dei punti, delle virgole e dei punti e virgola. Per non parlare dei due punti. Non stanno più nella pelle. Pardon: sulla carta, e si presentano a chiedergli il conto in quanto amici stretti del bistrattato punto esclamativo. Poi è la volta di Tarchetti, noto scavezzacollo della Scapigliatura milanese a cavallo del mezzo secolo ottocentesco. Il suo è un caso se possibile ancora più grave di quello russo. È la U la lettera non confacente al protagonista, anonimo e pazzo certificato. Non ci va proprio d’accordo e a quell’astio incomponibile sacrifica la sua igiene mentale. Muore in manicomio dopo avere aggredito la moglie Ulrica. De Marchi, da par suo, anche lui ottocentesco osservatore della burocrazia del nascente Stato unitario, porge al lettore un apologo sui fraintendimenti che nascono dalla disattenzione tra burocrati del servizio postale nazionale. La raccolta, diciamolo, di questi tempi possiede quasi naturalmente una sua graziosa necessità. Chi non vede come la ribellione della punteggiatura, l’incubo di Perekladin, sia ormai fatto quotidiano, prassi consolidata in tutta la gamma delle espressioni che ancora si avvalgono degli alfabeti? E per quanto ancora? Faccine, faccioni e altri segni, spesso di grossolana fattura, saturano la comunicazione privata al punto tale, quasi, di disarticolarla. La comunicazione ufficiale ha aggiunto, se possibile, ulteriori inciampi alla comprensione dei testi che cittadino e burocrazia si scambiano per la reciproca intesa. Per non parlare dell’ormai diffusa e inquietante incapacità delle giovani e giovanissime generazioni a usare il corsivo, tanto che l’odio della U del pazzo di Tarchetti risulterebbe in fondo un patetico precursore dell’idiosincrasia grammaticale e sintattica che attanaglia schiere di giovani. Ve l’immaginate i rapper di ultima generazione a battagliare con le vocali? Scansatevi, fate prima a tapparvi le orecchie, tutto è concesso. Non sbaglia, però, Roberto Alessandrini, ad osservare che gli errori e gli orrori ortografici, o di altra natura, sono vere e proprie rotture del patto sociale che innerva la lingua, la scrittura, l’arte e, nello stesso tempo, a invocare il buon uso trasformandoli in creative opportunità. Considerazione in sé giusta oltre che mossa da buone intenzioni e da altrettanto delicata grafia, ma qualcosa non torna in questa indulgenza. Freud dedicò al lapsus, agli atti involontari, ai tick espressivi, sia fisici che di linguaggio, pagine fondamentali. Dalle sue considerazioni l’indimenticabile Sebastiano Timpanaro, lui stesso insigne e mai bistrattato correttore di bozze per l’editrice La Nuova Italia, trasse un saggio su critica testuale e psicoanalisi nel quale l’incubo del russo Perekladin e quello del pazzo di Tarchetti avrebbero trovato se non la consolazione almeno spiegazione.
Sì, è vero si entra ed esce dai confini della grammatica e dell’ortografia per meglio esprimere sé stessi, o per dire agli altri quel qualcosa che il linguaggio pubblico non riuscirebbe a far intendere, ma non tutte le idiosincrasie sono ammesse se vogliamo garantire lo scambio comunicativo. Il purtroppo dimenticato Roberto Ridolfi, studioso del Guicciardini, del Machiavelli e del Savonarola, raccolse alcuni dei suoi scritti di occasione e li chiamò rispettivamente “i ghiribizzi” e “i palinfraschi”. Si opponeva, alla fine degli anni Sessanta, a lettori, e critici, per i quali «il loro classico è il codice della strada». Ci parrà stretta l’ortografia ma non vorrei tra i miei incubi un emoticon saltellante.