Corriere della Sera, 9 agosto 2023
Intervista a Fausto e Lella Bertinotti
«Perché è sempre stato un uomo ingombrante, non allineato, fuori dagli schemi», dice lei. Secondo lui, invece, «perché nella cultura che si era venuta formando dopo la crisi delle grandi organizzazioni politiche, a partire dal Partito comunista italiano, la memoria del Pci si era smarrita. E quindi, visto che sotto l’aggressività del berlusconismo il comunista doveva essere brutto, sporco e cattivo, faceva notizia il comunista che riusciva a stare in un luogo non brutto, non sporco e non cattivo».
Lella e Fausto Bertinotti riescono a dividersi anche sulle ragioni di fondo che li hanno portati a diventare, a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila, la coppia più glamour della politica italiana. Una specie di Instagram vivente prima che ci fosse Instagram, che si è nutrita di feste, salotti, mostre, cene. Quelle che Dagospia definiva le «Berty-nights». Sono diversissimi, anche per formazione politica: comunista ortodossa lei, donna di partito; conflittuale e spontaneista lui, uomo di sindacato, anche se poi ha finito per fare il leader di partito e il presidente della Camera. La loro storia insieme inizia a Varallo Pombia, provincia di Novara, all’inizio degli anni Sessanta.
LELLA: «Era il mio paese e anche quello dei suoi genitori, dove lui veniva in vacanza»
FAUSTO: «E dove mi sarei trasferito da Milano a diciott’anni, dopo la fine del lavoro di mio padre come macchinista delle ferrovie».
Come vi siete conosciuti?
L: «Lavorando in una colonia estiva organizzata dal comune per i bambini del paese. Organizzavamo attività di ginnastica, teatro, passeggiate. Io 16 anni, lui 22. Lui direttore della colonia, io una delle sue assistenti. Cominciavamo la giornata facendo l’alzabandiera e cantando l’inno nazionale».
F: «L’inno nazionale non me lo ricordavo. Ma sei sicura?».
L: «Certoooooo!».
Amore a prima vista?
F: «Non proprio. L’anno successivo a quello in cui ci siamo conosciuti non ci siamo visti perché avevo la maturità e sono rimasto a Milano».
L: «Dopo però ci siamo sposati subito».
Poi andate prima a Novara, dove Fausto fa il sindacalista nel tessile. E poi Torino, dove più avanti sarebbe diventato segretario della Cgil piemontese.
F: «Furono gli anni decisivi per la mia formazione. Gli anni dell’autunno caldo, del conflitto con la Fiat. Gli anni Settanta».
Voi che trent’anni dopo sareste diventati amici di uno dei suoi collaboratori, Mario D’Urso, avevate mai incontrato l’Avvocato Agnelli?
L: «Mai».
F: «Solo durante le trattative, mai in privato. A Torino a un sindacalista era vietato incontrare da soli il dirigente o il proprietario di una fabbrica qualsiasi, figurarsi quello della Fiat».
E anche gli anni del terrorismo, coi sindacalisti che erano un obiettivo sensibile delle Brigate rosse. Mai avuto paura?
F: «Mai».
L: «Io sì. Un giorno, lo ricordo perché c’era sciopero dei mezzi, sorprendo una coppia di sconosciuti dentro il portone del palazzo; a seguire, un signore che guardava dentro la nostra macchina; avevano anche citofonato, prima, e una voce diceva “scusi, abbiamo sbagliato”. A sera, dopo un comizio di Fausto, vedo un’auto che ci segue. Finisce che chiamo la polizia. Infatti, dopo la perquisizione di un covo delle Br, avevano trovato il suo nome tra quello degli obiettivi da colpire». (Bertinotti minimizza, ndr).
La politica vi ha mai diviso?
F: «Di recente sì».
L: «Per qualche anno non ho votato, alle ultime elezioni ho scelto il Movimento 5 Stelle».
F: «Io invece ho votato per la cosa più a sinistra che c’era sulla scheda, Potere al popolo. Così, l’ho detto a Lella, sono sicuro che non eleggo nessun parlamentare».
Era vera la storia del comunista in cachemire?
F: «Mi infastidisce ancora oggi il doverne parlare».
È una leggenda dura a morire, quanto c’è di vero?
L: «Adesso parlo io! È una bufala che nasce un po’ a causa mia. Secondo voi, uno che faceva il sindacalista con lo stipendio di operaio specializzato poteva permettersi il cachemire? Non direi. Andò così: un giorno, al mercato di via Sannio, a Roma, vedo un maglioncino a girocollo di cachemire usato e lo prendo (indica il marito, ndr) per questo povero disgraziato che di vestiti aveva poco e nulla. Costo: ventimila lire. La leggenda del cachemire inizia là e prosegue quando, al compleanno dei suoi sessant’anni, gli amici gli portano regali in cachemire: chi dei calzini, chi una sciarpa… Pensi che dopo, per colpirlo, c’erano giornalisti che andavano al negozio di abbigliamento sotto casa nostra per chiedere che cachemire vendessero e che cosa comprava Bertinotti. Il negoziante rispondeva “ma non trattiamo cachemire e Bertinotti non ne compra”. Solo che poi non lo scrivevano».
F: «Di questa storia stupida conservo un solo ricordo bello. Tre compagne operaie del cachemire che, tramite Ramon Mantovani, mi fecero avere un maglioncino bellissimo, accompagnato da una lettera che faceva più o meno così: “Compagno Bertinotti, perché sei così infastidito quando si parla di cachemire? È il nostro lavoro e la nostra vita. Tra l’altro, quello che spendi per comprarlo, poi lo risparmi perché dura nel tempo, al contrario di altri tessuti”».
Sempre divertiti nei salotti romani?
L: «In un periodo no, tutt’altro. Fu quando cadde il governo Prodi nel 1996, con Fausto che aveva avuto un coraggio incredibile a prendere quelle decisioni. Alcuni amici smisero per un certo periodo di invitarci. E in alcune cene fui anche costretta ad alzare la voce per difenderlo. Anche a distanza di anni, accusavano mio marito di aver fatto tornare Berlusconi. Ricordo che una volta mi misi a urlare: “Ma allora non sapete neanche la storia. Caduto Prodi, arrivarono i governi D’Alema e Amato, sempre di centrosinistra. Poi è finita la legislatura e voi non siete stati in grado di battere Berlusconi!”».
F: «Un pezzo della borghesia progressista, soprattutto romana, subiva da anni un deficit di politica. Per loro esisteva come collante solo l’antiberlusconismo e null’altro. Per cui quelle venivano vissute come scelte di rottura, anche se di fatto era solo politica».
Com’era Roma rispetto a Torino?
L: «Diversa. A un certo punto, nel 1987, decisi di non rinnovare più la tessera del Partito comunista. Ero iscritta alla sezione di Enrico Berlinguer, a Ponte Milvio, ma era diverso rispetto al partito di Torino. Abituata com’ero a parlare della condizione operaia e delle periferie, non mi trovavo a mio agio a parlare in sezione dei problemi del Coni».
Siete mai stati gelosi l’uno dell’altra e viceversa?
L: «Gelosa mai. Sono possessiva, il che è peggio. Comunque sia, non ho mai indagato, spiato o controllato nelle cose di Fausto».
F: «Io la gelosia non la conosco. Per certi aspetti, però, vado anche oltre. Mettiamola così: togliendo di mezzo il tradimento, che è un’operazione decisamente impegnativa, l’eccessiva attenzione nei confronti di un’altra persona al di fuori della coppia, anche se questa persona è di sesso femminile, mi darebbe terribilmente fastidio».
Uscite ancora tanto, la sera?
L: «Certo. Per anni sono uscita da sola, quando lui era impegnato con la politica. Adesso abbiamo ripreso a farlo insieme».
F: «Soprattutto teatro, mostre, cinema».
Sempre d’accordo su tutto?
F: «Sul dove andare sempre. Su quello che vediamo quasi mai».
In che senso?
L: «Nel senso che se decidiamo di andare al cinema, siamo d’accordo. Poi sul film non lo siamo quasi mai. Quello che piace a me non piace a lui e viceversa».
F: «Però sul teatro siamo quasi sempre in sintonia, no?».