Corriere della Sera, 9 agosto 2023
La nuova vita di Tony Blair
Al contrario del fantasma dell’Amleto, Tony Blair non è condannato «a soffrire tra i tormenti di fiamme furibonde» finché «gli abominevoli crimini commessi nei giorni naturali non saranno purgati nel fuoco», ma lo spettro dell’ex primo ministro continua a passeggiare, invisibile ma sempre presente, nella sede del partito laburista a Blackfriars Road. L’uomo delle tre vittorie consecutive (1997, 2001, 2005), il laburista che archiviò diciott’anni di thatcherismo ha osservato silente le quattro sconfitte consecutive del Labour dopo di lui (2010, 2015, 2017, 2019) e l’inespugnabile «red wall» di collegi sicuri al centro-nord polverizzato a sorpresa dallo sgangherato bulldozer di Boris Johnson.
Considerato «radioattivo» dal partito per il volonteroso aiuto dato a George W. Bush nella disastrosa avventura irachena, Blair da buon workaholic ha passato gli anni della babypensione dorata a lavorare. Libri, discorsi, consulenze, la creazione di alcune nonprofit. Fino al 2017 e alla fusione di tutte le sue attività nel Tony Blair Institute for Global Change, che è diventato un’azienda vera e propria – «Tony Blair Incorporated» l’ha ribattezzata sarcastico il sito di commenti politici UnHerd.
Ottocento dipendenti, sedi sparse per il mondo (oltre al quartier generale di Londra: New York, San Francisco, Abu Dhabi, Singapore, Accra), un po’ pensatoio un po’ società di consulting, è capitanata da sir Tony che fresco 70enne passa in viaggi di lavoro il 70% dell’anno mantenendo viva la fitta rete di contatti creata nel decennio passato a Downing Street. L’istituto produce una quantità considerevole di policy papers, analisi strategiche, commenti all’attualità che vanno dalla geopolitica all’innovazione tech. Ma il notevole fatturato – nel 2021: 81 milioni di dollari, circa 74 milioni di euro – come si spiega? Quasi esclusivamente con le consulenze fornite a governi stranieri (non a quelli africani: per loro l’Istituto lavora gratis), il resto sono donazioni.
Gli ex primi ministri britannici, per tradizione, scelgono una pensione placida. Margaret Thatcher compariva alla Camera dei Lord, non rilasciava interviste, parlava col biografo ufficiale Charles Moore, e prima delle elezioni politiche scriveva un editoriale per l’amato Daily Telegraph concedendo il suo regale endorsement al candidato Tory di turno. Il suo successore John Major diventò presidente di una squadra di cricket. Gordon Brown? Ambasciatore speciale Onu. David Cameron? Lavori anonimi, come anonimo fu il suo lavoro a Downing Street (unico acuto, il malconsigliato referendum che fece uscire il Regno dall’Unione europea). Theresa May e Liz Truss sono ancora parlamentari, Boris Johnson scrive articoli di giornale e litiga con le autorità locali della sua casa in campagna per la costruzione di una piscina che disturberebbe i tritoni.
Ma Blair, con il fiuto politico che lo ha sempre contraddistinto, nel 2017 annusando l’ondata populista che travolgeva l’Occidente ha fuso tutte le sue attività nel Tbi, affrancandosi dalle accuse di affarismo e diventando ufficialmente influencer ma senza stipendio. Allora nel Labour comandava ancora la sinistra-sinistra di Jeremy Corbyn, attivista barricadero e pessimo candidato. Dopo la seconda sconfitta consecutiva i «Corbynistas» sono stati spodestati dalla tolda di comando del partito, e l’arrivo del pacato, cauto Keir Starmer ha fatto il resto.
Il mese scorso, Blair ha invitato Starmer a un convegno al Park Plaza Westminster Bridge Hotel, vista sul Parlamento. L’ha abbracciato, e senza mezzi termini né scaramanzia – i sondaggi dicono che oggi Starmer batterebbe il premier conservatore Rishi Sunak 45 a 26 – gli ha detto «erediterai una situazione bruttissima». Starmer ha sorriso e – forte del fatto che un elettore su due non sa bene come la pensi ma probabilmente voterebbe comunque per lui, visto lo sfascio degli attuali Tories – ha detto che «la nazione ha bisogno di tre cose: crescita, crescita, crescita». Il vecchio mantra di Blair.