la Repubblica, 9 agosto 2023
Il verbale del primo interrogatorio di Messina Denaro
PALERMO – «Io non faccio parte di niente, io sono me stesso – esordisce – Mi definisco un criminale onesto». Nel suo primo interrogatorio, Matteo Messina Denaro parla da capomafia ancora in carica. «Io non sono uomo d’onore – mette a verbale – mi ci sento». Nega e rilancia. «Io non sono un santo – è l’unica ammissione – però non c’entro niente con la storia del bambino Di Matteo», tiene a precisare. E, poi, torna a sfidare i magistrati che lo hanno arrestato, il procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia e l’aggiunto Paolo Guido. L’ennesima sfida allo Stato da parte del capomafia condannato per le stragi del 1992-93, bloccato a Palermo dai carabinieri del Ros il 16 gennaio scorso, dopo 30 anni di latitanza.
«Io mafioso non lo sono – insiste nell’interrogatorio fatto il 13 febbraio, nel supercarcere dell’Aquila – ma conosco la mentalità dei mafiosi». È il più narcisista dei padrini. Gli chiedono: suo padre era mafioso? E lui risponde: «Non gliela feci mai questa domanda». Fa una pausa e precisa: «Mi auguro che lo sia stato… quantomeno la sua vita avrebbe avuto un senso». Eccolo, il boss che custodisce i segreti delle stragi, delle complicità eccellenti della mafia e dei tesori mai sequestrati. Il procuratore de Lucia gli chiede: conosce Cosa nostra? Risponde: «Dai giornali, certo». Il magistrato insiste: e conosce Bernardo Provenzano, con cui si scambiava pizzini? Lui nega anche l’evidenza: «L’ho conosciuto in tv. Poi essendo tutti e due latitanti ci siamo incontrati, succede: io chiedevo favori a lui, e lui a me».
La strategia
Ma perché negare anche l’evidenza? Messina Denaro vuole fare arrivare un messaggio soprattutto: «Dottore de Lucia, io non mi farò mai pentito». È un segnale che deve arrivare chiaro soprattutto all’esterno del carcere. Agli insospettabili complici che continuano a gestire il patrimonio del padrino, perché le relazioni sono il vero tesoro su cui può contare l’organizzazione mafiosa, che non rinuncia alla sconfitta.
Ecco perché il boss dice, con tono rassicurante: «Io, durante la latitanza, non ho mai avuto rapporti con appartenenti alle istituzioni,completamente». Per allontanare ancora una volta l’idea che abbia beneficiato di complicità. E per sostenerlo scomoda pure un antico proverbio: «Quando scoprii questo tumore e quindi mi restava poco da… però volevo andarmi a curare, dissi: “Vediamo”. E mi sono messo a pensare, ho seguito un vecchio adagio, un proverbio ebraico che dice: “Se vuoi nascondere un albero, piantalo nella foresta”. E l’ho seguito per davvero. Anche perché dicevo: “Ora che ho la malattia, non posso stare più fuori e debbo ritornare”. Qua mi gestivo meglio, nel mio ambiente». Così racconta del suo ultimo soggiorno a Campobello: «Non potevo fare alla Provenzano, dentro una casupola in campagna, con la ricotta e la cicoria, con tutto il rispetto per la ricotta e la cicoria, ma io devo uscire, dovevo mettermi in mezzo».
Si vanta di essere andato al ristorante, e pure in una sala dove giocava ai videopoker. Con una chiosa finale davvero a sorpresa, per proteggere ancora una volta i suoi favoreggiatori, quelli noti e quelli sconosciuti: «Il mafioso riservato è tipo un altro argomento di legge se vogliamo dire farlocco – dice ora, atteggiandosi a giurista – come il concorso esterno». Lo strumento di legge voluto da Giovanni Falcone per colpire gli insospettabili complici non piace ai mafiosi. In realtà, non piace neanche al ministro della Giustizia Carlo Nordio, che nei giorni scorsi si è lanciato in alcune improvvide dichiarazioni, scatenando le reazioni dei parenti delle vittime delle stragi, tanto da costringere la presidente del consiglio Giorgia Meloni a una precisazione.
La latitanza
Ma dov’è stato in tutti questi anni? Alle domande dei pm Messina Denaro risponde con l’ennesima sfida: «La mia vita non è stata sedentaria, è stata molto avventurosa, movimentata». E continua a negare di avere commesso i reati che gli contestano. Quando gli chiedono se ha mai trafficato in stupefacenti, dice: «Vivevo bene di mio, di famiglia, quindi...». Ed estorsioni? «Non ne faccio di queste cose». I pm lo incalzano ancora: e non ha mai avuto a che fare con Cosa nostra?. Risposta: «Non lo so, magari ci facevo qualche affare e non sapevo che era Cosa nostra». Prova sempre a sfuggire alle risposte. «Dunque, reati ne ha mai commessi lei?», gli chiedono un’altra volta. «No – dice – di quelli che mi accusano no».
Il procuratore de Lucia insiste: quindi stragi, omicidi, lei non c’entra niente? Risposta di Messina Denaro: «No, nella maniera più assoluta. Poi, mi possono accusare di qualsiasi cosa, io che ci posso fare alla fin fine, no?».
Ecco come parla un mafioso irriducibile. Quando il procuratore chiede: quindi, a parte la detenzione della pistola trovata nel covo, lei si reputa innocente, Ho compreso bene? Dice: «No, no, non voglio dire questo, sarebbe assurdo». E allora?. «Io ho detto la mia… In tutti i processi di reati con c’è mai stato riscontro oggettivo». Il procuratore chiosa: «Questa è una opinione». Il boss dice: «No».
E poi prova anche a prendersi una rivincita sull’arresto, spiegando di avere sempre fatto a meno dei telefonini: «Voi avete una tecnologia inimmaginabile – ammette – E io come dovevo difendermi? Fu così che iniziai a vivere da caverna, perché la tecnologia con la caverna non si potranno mai incontrare». Fino a quando iniziò adavere bisogno di un numero di cellulare da lasciare alla clinica dove faceva la chemioterapia. Dice: «Non voglio fare né il superuomo e nemmeno l’arrogante: voi mi avete preso per la malattia, senza la malattia non mi prendevate». E de Lucia replica: «Ma intanto l’abbiamopresa».
Falcone
Il boss non si rassegna. E si lancia pure in una interpretazione dei suoi vocali. Uno in particolare, quello del 23 maggio: «Io sono qua, bloccato – diceva – per le commemorazioni dista minchia». Ora dice: «Io non è che volevo offendere Falcone... io non sono credente, non ateo, sono agnostico, ma non bestemmio. Il punto qual è: che io ce l’avevo con quella metodologia di commemorazione. Allora se invece del giudice Falcone fosse stato Garibaldi, la mia reazione sempre quella sarebbe stata, perché non si possono permettere di bloccare un’autostrada per decine di chilometri: così vi fate odiare dalla gente». Parole chiarissime: i mafiosi detestano che si ricordino le vittime della mafia.