La Stampa, 9 agosto 2023
Biografia di Cesare Cassi
Furono più di cinquemila gli antifascisti condannati dal Tribunale speciale; di questi, almeno il 70% erano comunisti; e di questi, circa 800 chiesero la grazia a Mussolini. Di uno di essi, Cesare Cassi, incarcerato nel 1927, liberato nel 1934, espulso per tradimento dal Pci per aver chiesto e ottenuto dal Duce il provvedimento di clemenza, tratta lo splendido libro scritto da Aldo Agosti e Marina Cassi (Espulso per tradimento, Donzelli).
Pochi decenni fa un lavoro di questo genere sarebbe stato impossibile. La storiografia sui comunisti incarcerati per la loro opposizione al fascismo era dominata dall’immagine della “cattedra e il bugliolo": era il titolo di un libro di Antonio Pesenti, un grande economista incarcerato come comunista, ma soprattutto era la sintesi edificante dell’autorappresentazione che segnava le memorie e i ricordi dei militanti del Pci. Secondo i loro racconti, nel Ventennio la prigione, oltre che un luogo di pena, era stata anche una straordinaria occasione di apprendimento e di crescita intellettuale: quando erano stati arrestati dalla polizia fascista molti, come si diceva allora, «non sapevano né leggere né scrivere». Alla fine della pena uscirono non solo alfabetizzati e, in alcuni casi, colti, ma anche con alle spalle un’avventura pedagogica che niente aveva da invidiare all’esperienza di quelli che erano rimasti fuori dal carcere.
In molti stabilimenti di pena i comunisti erano riusciti a organizzare gruppi di studio dedicati alla politica, all’economia, alla storia, etc; sfruttando i pochi testi reperibili nelle biblioteche (o che le famiglie riuscivano a introdurre clandestinamente), più spesso attingendo direttamente alle memorie dei compagni più vecchi e più istruiti, per molti militanti del Pci si dischiusero gli orizzonti della conoscenza, con i libri che diventarono parte integrante del loro duro apprendistato di “rivoluzionari di professione”.
Dopo la caduta del fascismo l’immagine della “cattedra e il bugliolo” si arricchì di ulteriori elementi: in carcere i comunisti non avevano solo studiato ma erano stati pienamente coinvolti anche negli accesi dibattiti ideologici che negli anni dello stalinismo avevano attraversato i partiti che aderivano alla III Internazionale. La linea politica era allora difficile da decifrare per le sue giravolte e contraddizioni: nel 1928 Stalin denunciò la socialdemocrazia come nemica del socialismo, alleata “oggettiva” del fascismo; nel 1934-1936 tutto fu capovolto e si arrivò alla svolta dei “fronti popolari” per la quale, nel segno dell’antifascismo, si prospettavano le alleanze più larghe possibili, privilegiando come interlocutori anche i socialdemocratici.
Questi bruschi voltafaccia arrivavano nelle discussioni carcerarie in modo confuso, attraverso le poche notizie che filtravano attraverso la censura o i racconti frammentari dei compagni arrestati più recentemente. L’unica cosa che si capiva era che c’era in corso un dibattito acceso tra chi seguiva fedelmente la linea di Stalin e chi voleva allontanarsene e che era vitale, per la sopravvivenza del partito, affidarsi alla plumbea realtà della ortodossia della potenza sovietica, accantonando le impazienze estremistiche dei dissidenti. Ma in carcere era difficile definire quali fossero i pilastri dell’ortodossia. Si ricorreva così ai surrogati, a una sorta di test per verificare l’obbedienza alla linea: per le donne, fu il rifiuto dei riti cattolici imposti dalle suore e dall’amministrazione carceraria; per gli uomini, fu il divieto assoluto di chiedere la grazia.
Si poteva sollecitare la propria scarcerazione per una sospensione condizionale della pena o la possibilità di fruire dei benefici delle ricorrenti amnistie elargite dal regime; ma era assolutamente proibito fare “domanda di grazia”, un gesto infamante equiparato al tradimento, alla delazione, allo spionaggio. Quando le famiglie prendevano un’iniziativa del genere, i detenuti erano tenuti a dissociarsi in maniera anche dura. I casi più noti, quello del futuro Presidente della Repubblica, il socialista Sandro Pertini, ad esempio, sono raccontati benissimo da Agosti e Cassi.
Poi, negli anni, il dibattito storiografico si è disancorato dalle secche “della cattedra e il bugliolo” e le carceri fasciste sono state raccontate per quello che erano: un luogo orribile, con i detenuti vessati e maltrattati, il partito lontano ed estraneo, i collegamenti con l’esterno precari, un senso pervasivo di sconfitta e di solitudine che attanagliava i prigionieri politici, un universo claustrofobico nel quale si poteva contare quasi solo sulla propria famiglia.
Fu così per Cesare Cassi la cui detenzione è raccontata da ben 278 lettere che sono state ritrovate proprio nell’archivio di famiglia. Da questi testi, da queste fonti preziose, deriva la straordinarietà del libro. Quando Cassi fu arrestato e condannato, nel 1927, si era già sposato e aveva un figlio; nessuna algida dottrina o ideologia poteva alleviare la sofferenza di chi di colpo si vedeva privato della dimensione calda e protettiva di quegli affetti. Cassi in carcere era disperatamente solo. A Volterra e a Spoleto svolgeva un lavoro, ebanista e intagliatore, ma era solo e il lavoro contribuiva alla sua solitudine molto difficile da gestire sul piano umano. Cassi fu così travolto da quella «trasformazione molecolare» di cui parla Gramsci nelle sue lettere dal carcere: dopo un po’ ci si accorge che la prigione cambia la propria natura, che si sta per diventare (e alla fine lo si diventa) una persona completamente diversa.
La trasformazione di Cassi non è la visione improvvisa e miracolosa di san Paolo sulla via di Damasco, ma un processo complesso, con al centro proprio il desiderio di voler tornare alla sua famiglia. Quando il processo si conclude, Cassi chiede la grazia, il 12 maggio 1934, e la ottiene: non si è pentito, non rinnega la sua militanza comunista; lo fa per la famiglia, per fuggire dalla solitudine, per riscoprire le “normalità” della vita. E la famiglia lo accoglie con sollecitudine nel suo seno. Il partito no. Cesare non rientrò mai nel Pci e il suo nome fu iscritto per sempre nell’elenco infamante dei traditori. Morì nel 1968; fino a poco prima aveva gestito un’edicola in Piazza San Carlo a Torino