il Giornale, 8 agosto 2023
Riflessioni sul film Barbie
«P uoi tornare alla tua vita normale e dimenticarti che tutto questo sia mai successo oppure puoi conoscere la verità sull’universo. La scelta ora è tua». Se questa frase vi ricorda vagamente due pillole, una blu e una rossa, dovete prepararvi psicologicamente a un cambio di prospettiva e di tinteggiatura, perché non siete dentro Matrix, non state parlando con Morpheus, voi non siete Neo e di cappotti di pelle nera non se ne vede neanche l’ombra, che sarebbe comunque nera e quindi non c’è neanche quella. Siete dentro Barbieland, il mondo perfetto e plasticoso dove vivono le Barbie del film Barbie, dove ci si sveglia con i boccoli biondi perfetti (e non un’ora prima per farli a uno a uno con il Dyson, non so se si capisce la mia invidia), le lenzuola sono sbrilluccicose, dove l’acqua della doccia è talmente perfetta da non esserci, la colazione ti salta nel piatto già pronta, i vestiti ti saltano addosso già stirati e tutto, davvero tutto, è rosa, a perdita d’occhio, nel senso proprio che ci perdete gli occhi dietro una tale quantità di rosa, e se ve lo dico io ci potete credere. Cioè, io sono andata al cinema sapendo che l’allestimento del set cinematografico per il film aveva contribuito a causare quello che il Guardian aveva titolato come «worldwide shortage of pink paint» e la production designer Sarah Greenwood aveva riassunto durante un’intervista in una frase a mio parere bellissima: «the world ran out of pink», ma comunque non ero pronta. (A dire la verità non ero neanche pronta alle orde di signore, fuori età massima, in rosa dalla punta delle scarpe a quella delle unghie, sedute nella fila di fronte alla mia che si dicevano: «Finalmente un film che si può guardare, non come quello, quello lì, Oppen, quello lì che non si capisce neanche il titolo».)
Il mondo ha esaurito il rosa. Non ce ne è più di rosa nel mondo reale, lo abbiamo usato tutto per costruire il mondo, l’universo parallelo, di Barbie. Ecco, io dico «di Barbie», ma bisognerebbe dire di «Barbie e Ken», perché c’è anche «e Ken», si chiama così, dato che, pur essendo anche lui biondo perfetto, palestrato perfetto, in posa perfetta sulla spiaggia di sabbia rosa con la sua tavola da surf di fronte a immobili onde di plastica, esiste davvero solo se Barbie lo guarda, solo se Barbie lo saluta, altrimenti niente. Un «e Ken» che viene addirittura (e, devo dire, piuttosto brutalmente) «friendzonato», che per la sua Barbie non è mai abbastanza, che viene dato sempre per scontato e che forse nasconde qualcosa di più sotto la sua «fragilità bionda», ma sto divagando adesso e mi sono persa a causa del troppo rosa (o forse del troppo Ryan Gosling). Stavo dicendo della scelta, delle pillole che non sono pillole e di Morpheus che non è Morpheus, ma è «Weird Barbie», la Barbie Strana, la Barbie che non è perfetta come tutte le altre Barbie dottoresse, esploratrici, giornaliste, astronaute, ma è una Barbie con cui qualcuno «nel mondo reale» ha giocato «troppo», una Barbie ricettacolo di frustrazioni a cui hanno dipinto la faccia con i pennarelli, hanno tagliato i capelli, stropicciato i vestiti e stortato le gambe in un’eterna spaccata, l’unica Barbie, però, che conosce il mondo reale e perciò l’unica a cui la nostra Barbie perfetta si può rivolgere quando inizia a chiedersi e a chiedere alle altre Barbie se hanno mai pensato alla morte, quando si iniziano a intravedere delle crepe nella perfezione: i boccoli spettinati appena sveglia, la doccia di acqua inesistente ma inspiegabilmente fredda, la colazione con latte inesistente ma inspiegabilmente scaduto, un waffle bruciacchiato e, orrore degli orrori, i piedi, i famosi piedi della Barbie sempre in punta pronti a infilarsi senza sforzo o dolore alcuno in infinite collezioni di scarpe con il tacco, sono diventati piatti. La morte arriva quindi dentro Barbieland nella forma di piedi piatti e, altro orrore degli orrori, di cellulite, arriva accompagnata dalla scelta, la scelta da cui eravamo partiti prima di perderci in tutto il resto, la scelta tra la perfezione della vita così come Barbie l’ha sempre conosciuta e la realtà della vita così come Barbie non avrebbe mai voluto conoscerla, la scelta tra la solita scarpa (rosa, of course) con il tacco, che però adesso con i piedi piatti fa male, e l’orrido ma funzionale sandalo Birkenstock. In altre parole, verrà la morte e avrà le Birkenstock.
Non vi racconto altro, se non che le intuizioni geniali dell’inizio si vanno un po’ a perdere con l’evolversi della trama in uno sfilacciamento di chiavi di lettura, di Mattel e di patriarcato, ma d’altronde era difficile superare la scena-citazione iniziale da 2001. Odissea nello spazio della gigante Barbie-monolite al cospetto della quale bambine-scimmie distruggono bambolotti-scheletri sulle note di Strauss. Credo però di non spoilerarvi nulla se vi avviso che il bambolotto-femore lanciato roteante in cielo non si trasformerà in astronave.