la Repubblica, 8 agosto 2023
Cronaca della fine del fascismo (7)
Carboni, d’Acquarone e Guariglia pensano di denunciare l’accordo, si discute, finché qualcuno ricorda che la firma della resa è stata filmata. Il Sovrano a questo punto si alza in piedi chiudendo la riunione: «Accettiamo». L’accordo è che il momento decisivo sarà preannunciato da un segnale sulla Bbc, con un programma di musica verdiana. È attraverso questa porta stretta che l’Italia entra infine nell’armistizio, quasi sospinta a forza, accompagnata dalle note popolari e possenti di Giuseppe Verdi.
All’oscuro di tutto, Mussolini pranza e cena sempre da solo perché così vogliono gli ordini, ma gli piace affacciarsi alla finestra e guardare il pianoro, i colori degli abeti e la pietra del massiccio, indovinare le capanne dei pastori in mezzo al gregge, cercare le aquile prima del tramonto. Nessuno usa più il termine “Duce”, ma tutti lo chiamano “Eccellenza”, un ufficiale lo segue a due metri quando dopo pranzo cammina fino al bosco: ritornando vede le mitragliatrici schierate contro il muro. Ha passato le prime settimane in “isolamento morale”, come lo chiama lui. Poi sono arrivati i Bollettini di guerra, su cui può indovinare l’andamento del conflitto. È come se vivesse in un altrove perenne. Cosa aveva domandato il Re, mentre lo accompagnava fuori da Villa Savoia? «E ora dove andrete, Duce?». «Alla Rocca delle Caminate», aveva risposto meccanicamente, frastornato. Ma poi gli spiegarono che la popolazione di Forlì inferocita lo avrebbe “fatto a pezzi”. Ecco l’isolamento, con uno spiraglio: cinque lettere da Rachele, una da Edda, l’ultima dalla sorella Edvige, che voleva addirittura venire a trovarlo. Il legame è forte, Mussolini ricorda quella volta (nel ’34? O era il ’35?) che scrisse nel muro del santuario di Revine la supplica per lei a San Francesco da Paola: «Tu che sei tanto buono intercedi la gioia della guarigione di mia sorella», o il messaggio che le aveva inviato dopo la morte del fratello Arnaldo: «Ti propongo di portare la tua tenda a Roma, vicino a me». A Edvige può dire tutto, persino la verità.
Stasera le scrive: «Per quanto mi riguarda io mi considero un uomo per tre quarti defunto. Il resto è un mucchio di ossa e muscoli in fase di deperimento organico. Del passato non una parola, anch’esso è morto. Non rimpiango niente, non desidero niente». Continua, associandola nella rovina: «Come sai, il nostro nome è bandito, esecrato, cancellato: per fortuna che io avevo provveduto a proibire intitolazioni a mio nome. Io stesso non so più che cosa sono, se un prigioniero o un “custodito” contro il furore del popolo. Quanto agli italiani, sanno dove sono, ma non lo devono sapere». Spera sempre di raggiungere la Rocca, «ed ivi aspettare tranquillamente la fine dei miei giorni, che mi auguro sollecita». E per la prima volta parla di testamento. «In un’isola avevo incominciato il mio avvicinamento alla religione, se ne occupava un parroco di fama ottima. Poi sono partito e la di lui fatica rimase interrotta. Ad ogni modo in una delle cartelle che tenevo vicino al lume sul mio tavolo a Palazzo Venezia, c’è di mio pugno un testamento datato maggio 1943 che dice: “Nato cattolico apostolico romano, tale intendo morire. Non voglio onori funebri di nessuna specie”. Porto a tua conoscenza queste mie volontà».
Manca qualsiasi riflessione sugli errori commessi, sulla violenza del regime, sulle scelte liberticide. Nella “custodia”, l’ex dittatore misura la distanza tra le adunate oceaniche e l’abbandono da parte del popolo, dopo la caduta. Aveva ingannato gli italiani o si era ingannato? E quella clausola dell’armistizio di cui ha parlato Churchill ai Comuni – lo ha detto la radio –, con la consegna del Capo del Fascismo agli Alleati, quando e come scatterà? Non riuscendo a dormire, Mussolini alle 2 si alza e scrive un biglietto per il tenente Faiola, annunciandogli che gli inglesi non riusciranno a catturarlo vivo. Il tenente si fa consegnare le lame del rasoio, sequestra tutti gli oggetti taglienti e metallici, poi si volta verso l’uomo che era stato Duce, e lo vede più rassegnato che disperato: «Tutto quello che è accaduto, doveva accadere
Mare calmo, quasi piatto alle due di notte, barche calate in acqua, si procede in orario. Quel 9 settembre sembra succedere tutto, come se adesso il calendario avesse improvvisamente fretta. Più di 400 navi da guerra sono davanti al golfo di Salerno con sette divisioni, per un totale di 170 mila uomini, di cui 100 mila inglesi e 70 mila americani. La Quinta Armata è comandata dal tenente generale Mark Clark, l’Ottava dal generale britannico Bernard Law Montgomery. È l’operazione Avalanche, il primo grande sbarco nell’Italia continentale, dopo la Sicilia. Alle 3.30 i battaglioni d’assalto attaccano sulla destra, e scendono sulle spiagge di Paestum. Invadono la piana del Sele, occupano Salerno, creano una testa di ponte da cui partire per conquistare Napoli col suo porto. Le sei divisioni tedesche guidate dal Feldmaresciallo Kesserling li aspettano, sono schierate, illuminano il mare coi razzi traccianti, rispondono con cannoni, mitragliatrici e mortai, mentre un altoparlante in inglese invita gliinvasori sotto tiro ad arrendersi. L’ordine di Kesserling ai suoi è definitivo: «Dobbiamo annientarli completamente e ricacciarli in mare. Devono capire che non hanno nessuna speranza contro la potenza della Germania». Qui per quasi due settimane si giocano le sorti della guerra, finché il primo giorno di ottobre le truppe anglo-statunitensi riescono ad entrare a Napoli, che è già insorta in una ribellione anti-tedesca di popolo, guidata dagli scugnizzi.
Il primo gesto di Badoglio dopo l’annuncio dell’armistizio è la firma sotto una lettera personale ad Adolf Hitler. «Assumendo la direzione del governo italiano la mia prima decisione fu quella di continuare la guerra. Malgrado tutti gli sforzi, le nostre difese sono crollate. L’invasione è in atto. L’Italia non ha più forze di resistenza. In tali condizioni il governo non è più in grado di assumere la responsabilità di continuare una guerra che è già costata all’Italia, oltre alla perdita del suo impero coloniale, la distruzione delle sue città, delle sue industrie e l’invasione del suo proprio territorio». Poi la frase chiave: «Non si può domandare ad un popolo di continuare a combattere quando ogni legittima speranza di vittoria o di difesa non esiste più». Quindi la conclusione: «L’Italia per evitare la totale rovina si sente costretta pertanto a domandare l’armistizio al nemico». Sembra quasi una domanda di grazia, come se l’Italia si affidasse alla misericordia di Hitler. Temendo il peggio: tanto che quella notte – tra l’8 e il 9 di settembre – la famiglia reale, il presidente del Consiglio e il Capo di Stato Maggiore Generale lasciano reggia e abitazioni private e si trasferiscono al ministero della Guerra. Alle quattro l’allarme scatena il panico. Ci sono combattimenti a Porta San Paolo, soldati che non vogliono arrendersi combattono i tedeschi insieme con cittadini che hanno recuperato le armi: è l’atto spontaneo d’inizio della Resistenza. In piena notte nel ministero trasformato in fortilizio bisogna decidere come affrontare l’emergenza. Ci sono armi, uomini, munizioni, c’è anche un rifugio corazzato nei sotterranei. Soprattutto, c’è abbondanza di generali, nello smarrimento del governo. Resistere? «Se arrivano – continua a ripetere Badoglio – ci tagliano la testa». La paura fisica è per la deportazione. La paura politica è per la cattura del Re e del presidente del Consiglio, che consentirebbe a Hitler di reinsediare a Roma un governo fascista di stretta obbedienza, annullando l’armistizio.
Alle 4.30 Badoglio e il generale Ambrosio bussano alla porta dell’appartamento privato del ministro, dove dormono il Re, la Regina, il Principe Ereditario, il Duca d’Acquarone e il Primo Aiutante di Campo. Informano Vittorio Emanuele della decisione di fuggire attraverso la Tiburtina, l’unica via libera. Il Sovrano è d’accordo. Scendono nel buio del cortile dove sono pronte 5 auto, senza aver avvertito gli altri membri del governo e soprattutto senza aver lasciato una chiara disposizione per la difesa di Roma e un’indicazione per i Comandi dislocati sul territorio su come gestire l’armistizio. L’Italia si è arresa agli Alleati, ma non ha ancora dichiarato guerra alla Germania. Dove vanno puntate le armi? Tutte le Armate e le Difese Territoriali conoscono l’ordine 111 e la Memoria 44, che stabilisce cosa fare in caso di attacchi tedeschi. Ma adesso i Comandi chiedono chiarezza, vogliono capire. Nella confusione il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Roatta impartisce l’ordine: «Ad atti di forza reagire con atti di forza». Quasi una tautologia militare. Reagire, non agire. Il vertice politico e militare dello Stato scappa mettendosi in salvo mentre si lascia alle spalle il caos e lo sbando, senza un’assunzione di responsabilità, con la stessa ambiguità delle ultime parole di Badoglio nell’annuncio dell’armistizio.
È questo vuoto di responsabilità generale che trasforma il viaggio verso Pescara, per portare in salvo i Lari e i Penati dello Stato, in una fuga. Partono col cielo ancora scuro, per prima la Fiat 2800 con il Re, la Regina, il generale Puntoni e il tenente colonnello Buzzaccarini. Subito dietro la berlina personale della Regina, su cui viaggiano Badoglio, d’Acquarone e il maggiore Valenzano, nipote del Maresciallo e suo assistente. Poi viene l’auto del Principe Umberto, con un generale e due ufficiali. Infine chiudono il corteo l’auto che porta i bagagli dei Sovrani, sorvegliati dai due camerieri personali, Pierino e Rosa, e quella con gli attendenti. Fa freddo e il Principe di Piemonte porge il suo cappotto militare a Badoglio che si è vestito in borghese. Come raggiungere il Sud e gli Alleati? L’aereo è da scartare, la Regina ha un problema asmatico, in quota le manca il respiro: si andrà per mare. Umberto suggerisce che il corteo si fermi a Crecchio, nel castello amico dei Duchi di Bovino, che diventa rifugio e base operativa di una missione cieca in un Paese allo sbando. In questo momento tutti i protagonisti dell’estate 1943 sono fuori quadro: Il Re in fuga, Badoglio con lui, Mussolini prigioniero. Nel vuoto di potere, tutti i troni sembrano vacanti.
Prima di sera la Duchessa Antonia Caetani d’Aragona va a trovare in camera il Principe ereditario e prova a convincerlo che il suo posto è a Roma: «Altezza, lasci partire i suoi genitori, ma ella torni a Roma, combatta, e la Corona sarà salva». Umberto scuote la testa: «Mon père ne veut pas». Poi però, verso le 9, convoca il generale Puntoni: «La mia partenza da Roma è uno sbaglio, sarebbe meglio che io tornassi indietro. La presenza nella capitale di un membro della mia casa è indispensabile». Per l’Erede (che ha 39 anni, è generale d’Armata e Maresciallo d’Italia, ma è sempre rimasto escluso dalle decisioni politiche), è il primo, timidotentativo di ribellione alle disposizioni del padre. Lo spinge in quella direzione la fronda principesca della moglie Maria José, non a caso confinata in Piemonte dal Duca d’Acquarone per la disinvoltura assidua dei suoi rapporti con i leader antifascisti. Proprio in quei giorni la Principessa continuava a dispiegare la sua rete, e aveva appena mandato a prendere a Cuneo con la sua auto l’ex ministro liberale Soleri, invitandolo a cena nel castello di Racconigi per confidargli tutta la sua preoccupazione per il futuro della monarchia, che vedeva sempre più «dentro un vicolo cieco». E anche il Principe comincia ad esserne consapevole, se è vero che quando il corteo fuggiasco si ferma al Bivio di Brecciarola tenta di dare una biforcazione anche al suo destino: scende dall’auto, si avvicina alla vettura reale e chinandosi al finestrino di Vittorio Emanuele gli dice che sta pensando di tornare a Roma. «Beppo – gli risponde in piemontese il padre – s’at piju, at massu», se ti prendono ti ammazzano.
Come se spuntasse dal repertorio di un’altra epoca, Quinto Navarra si presenta di prima mattina al ministero degli Esteri, dice il suo nome all’ingresso, lo fanno salire, entra nell’anticamera del ministro dove incontra il Capo di gabinetto. Tutti lo osservano con curiosità, hanno sempre sentito parlare di lui, non lo conoscono di persona: è il cameriere privato del Duce a Palazzo Venezia, gestisce le sue faccende private, regola il traffico nell’appartamento, serve il tè alle favorite, chiacchiera con le più assidue nell’attesa che il Capo del governo finisca i suoi impegni di Stato. Si parlava di lui come del depositario di mille segreti, custode di una fedeltà non politica ma personale, guardiano di vizi e debolezze che lo rendevano invulnerabile. Adesso improvvisamente è un vecchio, che parla mentre le mani gli tremano. Ha il Parkinson, ma il vero malessere che lo ha sopraffatto è il ribaltamento del suo mondo così repentino da lasciarlo stupefatto, spogliato di qualsiasi ruolo, senza stipendio e senza lavoro ma con il terrore di essere additato come un membro della banda: soprattutto adesso che è nata la commissione d’indagine sugli arricchimenti dei gerarchi, si cercano le fortune di casa Ciano, si racconta l’arresto dell’altro giorno a Bardonecchia dell’ex federale di Torino Gazzotti, sorpreso con la refurtiva nella valigia. Come Navarra, molti fascisti hanno paura, ricordando i soprusi di cui sono stati protagonisti. Ettore Muti, ex segretario del Pnf, è appena stato ucciso nella pineta di Fregene da una pattuglia di carabinieri che dovevano arrestarlo. Bottai legge la notizia sui giornali, ricorda «la fronte bassa di Muti, la testa piccola rapata da boxeur, il suo squadrismo da sicari»: ma intanto anche lui deve nascondersi in un rifugio di nove passi per quattro dentro un alveare burocratico, tra il crepitio di dattilografe dalle 9 alle 14, con una passeggiata notturna sul tetto, davanti a una Roma di pinnacoli, camini, statue d’apostoli che nei loro gesti di pietra non si sa se benedicono la vecchia epoca o la nuova.
Hanno arrestato Claretta. I giornali adesso la svelano pubblicando le sue lettere e quelle del Duce, le sue fotografie. La popolazione, che aveva mormorato per anni, ora vuole sapere tutto. Già il 26 luglio, il mattino dopo l’arresto di Mussolini, una ventina di uomini entrano al numero 69 di via Nazionale, dov’è lo studio medico del dottor Francesco Saverio Petacci, il padre dell’amante del Duce. Gettano ogni cosa dal balcone, mobili, strumenti di lavoro, libri, registri, lettini: si vendicano per i privilegi di cui la famiglia ha goduto, i favoritismi, le scorciatoie, gli affari. Le duesorelle, Claretta e Miria, si rifugiano nella villa di Meina sul lago Maggiore, vicino a Novara. Ma un’ispezione di polizia sequestra lettere, documenti, gioielli, gli agenti rinchiudono i genitori e le figlie nel carcere, in celle separate. L’accusa parla di «incauto acquisto di un tappeto persiano»: ma l’arresto chiama in causa i traffici di Marcello, il fratello di Clara, si appoggia sul furore popolare, sui pettegolezzi affaristici che circondano la famiglia, sulla vendetta, sull’odio per Il Duce che si rovescia sulla persona a lui vicina. L’albergo Coccia rifiuta di preparare il cibo per le prigioniere, l’albergo Pozzo accetta, e provvede. Fino al 9 settembre, quando le sorelle lasciano il carcere dopo giorni di disperazione per Claretta nella cella lercia, con le guardie che le passano i giornali dove si racconta la sua storia, di cui parla avidamente tutta l’Italia.
Su strade secondarie, con i fari bassi per non richiamare l’attenzione su quel corteo alla deriva, il Re e il suo seguito arrivano a Ortona, il porto più importante d’Abruzzo. È mezzanotte quando l’autista reale Baraldi s’inchina alla Regina, che si guarda intorno prima di prendere le sue gocce medicinali. Il porto è circondato da curiosi, ma soprattutto è preso d’assalto da generali in divisa e in borghese, ufficiali col mitra a tracolla, cortigiani nel panico. Nessuno vuole restare sulla banchina, scartato, tutti pensano che viaggiare col Re sia la soluzione di massima sicurezza. Quando si avvicina la nave “Baionetta”, la calca preme sul peschereccio “Littorio” che deve effettuare il trasbordo. È un assalto, prima la Corte, poi i generali, quindi i più anziani, tra grida, spintoni, minacce, nello spettacolo di un vertice statale in dissoluzione. A bordo ci sono 57 posti. Molti restano a terra, imprecando. All’una di notte la gente di Ortona vede la coppia reale allontanarsi sul mare nella baraonda del “si salvi chi può”, lasciando nel porto la percezione tragica di un naufragio civile e morale. Inizia il viaggio notturno da ciò che resta del fascismo alla fragile democrazia recuperata, nel cosiddetto Regno del Sud che da oggi s’instaura a Brindisi. «Italiani – dice il proclama di Vittorio Emanuele III trasmesso da radio Bari –, per la salvezza della capitale e per poter pienamente assolvere i miei doveri di Re, col governo e con le autorità militari mi sono trasferito in altro punto del sacro e libero suolo nazionale. Tornerà a splendere la luce eterna di Roma e d’Italia. Faccio affidamento su di voi, come voi potete contare, fino all’estremo sacrificio, sul vostro Re. Voglia Iddio soccorrere l’Italia, in questa grave ora della sua storia».
Ma prima, deve finire quel 12 settembre sterminato. Al mattino un drappello tedesco entra alla Rocca e spiega a Rachele che deve prepararsi in 45 minuti, bisogna partire per la Germania, ordini del Führer. Anna Maria aiuta la madre a rifare le valigie, Romano infila nel bagaglio un corno di ferro arrugginito, convocando la fortuna. Poi, da sola, la moglie di Mussolini fa un ultimo giro per le stanze della Rocca, la cucina, il salotto, finché nello studio si trova davanti un ritratto del Duce con Badoglio, i due affiancati di profilo, dentro la stessa cornice: getta il quadro a terra, calpesta il vetro, fa a pezzi la tela, insultando il Maresciallo. Volano a Monaco da Forlì su un aereo da guerra, scortato da un caccia tedesco. Alloggiano al “Quattro Stagioni” e mentre sono a cena un ufficiale batte i tacchi di fronte a Rachele: «Oggi abbiamo liberato il Duce al Gran Sasso. È già in viaggio per la Germania, domani lo ritroverete». Quando atterrano tre trimotori, alle due del pomeriggio, sono tutti all’aeroporto. Rachele lo rivede, dopo due mesi, con gli scarponi da sci, un cappotto nero, pallido, dimagrito. Deve andare da Hitler, al quartier generale, ma il maltempo consiglia di aspettare domani. Li ospitano al Karl Palast, per il Duce c’è una camera di stucchi, specchi e marmi, ma stasera lui sceglie di dormire con Rachele. Non smette di fare domande, mentre si spoglia per un bagno, gettando le calze bucate e le mutande di una misura in più, regalate da un marinaio della corvetta Persefone che lo portava a Ponza. Ma adesso sta raccontando quel volo stupefacente a duemila metri, sul Gran Sasso.
Quel mattino – sempre il 12, naturalmente – comincia con un messaggio sul filo del telegrafo per l’ispettore Gueli, che comanda il servizio di sorveglianza di Campo Imperatore. È firmato dal nuovo Capo della polizia Senise: «Si raccomanda massima prudenza». Il governo è scappato col Re, la piazza è abbandonata, la situazione torna a essere incerta, gli apparati annusano l’aria e frenano. «Bisogna evitare ogni spargimento di sangue», traduce Gueli, che in precedenza aveva ricevuto l’ordine di resistere a ogni tentativo di chiunque di impadronirsi del Duce. Proprio in quei momenti un manipolo tedesco prende possesso della stazione di base della funivia che sale fino all’Hotel Rifugio, e ferisce mortalmente due agenti. Nulla si sa a Campo Imperatore, dove il Duce sta facendo la sua camminata quotidiana nell’altura, accompagnato dal maresciallo Antichi. Rientrano, e Mussolini si affaccia alla finestra della camera 201, al secondo piano, quando gli aerei che volano alti sganciano nove alianti Des 250, leggerissimi, che scendono sull’altopiano fermandosi davanti alla casa, mentre uno prosegue fino a sbattere contro la parete di pietra. Otto Skorzeny, il capitano del nucleo SS per le operazioni speciali, è già saltato a terra, pistola in pugno, mentre i parà ai suoi ordini piazzano le mitragliatrici sul piazzale. È stato chiamato a fine luglio da Hitler, che gli ha affidato il compito di portargli il Duce. Lui ha preparato il piano con gli alianti, ha prelevato il generale Fernando Soleti e adesso lo spinge avanti come ostaggio. «Non sparate», urla il generale. Dalla finestra si aggiunge il grido di Mussolini: «Che fate, non vedete? C’è un generale italiano: attenti, non sparate». Dall’altra finestra Gueli dà ordine di non opporre resistenza. Skorzeny è già sull’attenti, davanti al Duce: «Il Führer mi ha dato l’incarico di liberarvi». «Ero convinto che Hitler mi avrebbe dato questa prova di amicizia
Adesso hanno fretta. Lo accompagnano a un pianoro poco più in basso, dov’è in attesa un aereo “Cicogna”, un piccolo Fieseler 156 appena atterrato, progettato per gli interventi d’emergenza: lo pilota il capitano Heinrich Gerlach, un asso dell’aviazione tedesca. Un operatore dell’Ufa, la casa cinematografica tedesca,filma il Duce tra le SS, col cappello in testa, il bavero del cappotto rialzato: la propaganda è un’arma bellica. Il piano di volo prevede tappa a Pratica di mare, poi Vienna e Rastenburg, dal Fuhrer. Il Duce tentenna, vuole tornare a casa, è stanco, e poi il pilota fa notare che l’aereo ha solo due posti e lo spazio per il rullaggio è pochissimo. Ma Skorzeny si accovaccia dietro Mussolini quasi abbracciandolo, vuole decollare: o almeno provarci. Il Cicogna accende i motori, le SS lo trattengono afferrando la coda e aspettano che salgano i giri del motore, poi rulla tra i sassi fino al burrone, scompare e si rialza in volo virando verso il mare, con quell’uomo improvvisamente anziano che è stato dittatore e oggi sembra un sopravvissuto, la barba incolta e gli occhi per sempre spaventati