la Repubblica, 8 agosto 2023
In morte di Mario Tronti
«Ma esiste ancora la classe operaia?». Mario Tronti, che ieri se n’è andato a 92 anni, se lo sentì chiedere ormai diverso tempo fa a un casello dell’autostrada e purtroppo non si sa la risposta perché era un uomo che aveva il dono – il carisma, secondo San Paolo, intellettuale- santo da lui di recente assai approfondito – della sorpresa. In compenso lo stesso interrogativo comparve più o meno negli stessi anni in una vignetta di Altan, e anche la risposta di Cipputi fu secca, poetica e vagamente surreale: «Parlerò solo davanti al mio sindacalista di fiducia».
Tronti era un uomo amabile, distratto e molto serio, però forse un sorriso se lo sarebbe concesso. E tuttavia, almeno ai suoi tempi sulla fiducia da accordare a un eventuale paraclito della Cgil avrebbe certo avuto severe obiezioni. Come studioso marxista e capostipite teorico dell’operaismo il giudizio era che nella lotta di classe occorreva superare non solo la mediazione del sindacato, ma addirittura quella del Partito per riconnettersi direttamente all’autonomia e alla spontaneità della classe operaia, ciò che a Botteghe Oscure suonava come un sacrilegio annientando ogni possibile tradizione riguardo al controllo dei mezzi di produzione.
Ci si rende conto che al giorno d’oggi tali dispute appaiono del tutto e pacificamente incomprensibili. Ma con un ulteriore e ardito passo in avanti (e indietro) converrà aggiungere che l’intuizione ebbe qualche riscontro quando nelle fabbriche del nord si fece largo la figura dell’operaio- massa, di cui Tronti diede una definizione invero un po’ enfatica che fece epoca, ma dopo tutto aveva un senso: «Rude razza pagana senza ideali, senza fede e senza morale».
Con pochi altri personaggi di qualità, fra cui Alberto Asor Rosa, coltivò questi orizzonti su una rivista, “Classe operaia” e in un testo, “Operai e capitale” che, pubblicato nel 1966, esercitò un’indubbia influenza sui futuri gruppi della sinistra extraparlamentare e gli valse un ovvio distacco dall’ortodossia culturale del Pci. Puro, ma stimato eretico, Tronti rimase per diversi anni un po’ dentro e un po’ fuori, senza che mai alcuno potesse accusarlo di far l’occhietto alla violenza o di condurre la sua esistenza secondo i canoni di una boheme rivoluzionaria.
Abitava in un modesto appartamento dalle parti di via Ostiense, chi andava a fargli visita ricordavail tavolo della cucina in formica e la densità dei libri. Detestava e temeva la tv, molto meno delle sconvolgenti novità che lo portavano a coniugare il marxismo con pensatori perfino reazionari senza scartare audaci approfondimenti che da Machiavelli arrivavano a comprendere la cultura cattolica.
Nessun casellante, a quanto risulta, gli chiese se esistevano ancora gli intellettuali. Ma anche qui, non senza un sospiro di rassegnazione, si può replicare che ormai da tempo si è consumato il legame che teneva unite la politica e la cultura. Intellettuale è diventata una brutta parola e tutto lascia pensare che Tronti ne fosse, più che scandalizzato, infelice; e se pure anche questo sembra oggi incredibile la sua vita coincide mirabilmente con le avventure del suo pensiero, duttile ecoerente, di rara dignità.
Professore di filosofia a Siena, nei primi anni 80 si riavvicinò al Pci e viceversa. Di sicuro fu stimato da Berlinguer, forse perché le sue analisi sulla crisi della politica lo portavano a comprendere la portata teorica del compromesso storico. Dal Pci ebbe modesti riconoscimenti, per quanto poco gli importasse. Dopo l’89 restò a mezza via tra Occhetto e il No alla svolta, ma capì meglio di tanti altri dove tutto andava a parare: «Emergenza antropologica». Così salutò la nuova fase: «Viviamo un tempo senza epoca, nulla si solleva e rimane per il futuro». Fu eletto un paio di volte in Parlamento col Pds e anche col Pd, senza risparmiarsi una significativa tirata contro il buonismo, «una melassa di buoni sentimenti che girano a vuoto... Non me la sento di stare con quelli che alle 9 di sera entrano all’Auditorium contro quelli che alle 6 di mattina escono di casa». Ma faceva effetto vederlo presentare uno dei suoi ultimi libri con Maria Elena Boschi ai Musei capitolini.
Senza più classe operaia e senza intellettuali c’è qualche ragione di pensare che negli ultimi anni si fosse abbandonato a Dio. Di sicuro aveva fatto suoi dei bei versi di Padre Turoldo: «Profeta non è uno che annuncia il futuro/ è colui che in pena denuncia/ il presente». Se i tempi frivoli impongono di attribuire alla sua vita un’ultimissima e casuale circostanza si dirà che era anche lo zio di Renato Zero, a riprova che il mondo è fortunatamente vario e fra marxismo e sorcini non vale la pena di fare troppe distinzioni.