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 2023  agosto 08 Martedì calendario

Marco Risi ricorda il padre Dino

Ho intervistato Marco Risi a casa di sua zia Edith Bruck, scrittrice testimone della Shoah, moglie del poeta Nelo Risi, fratello di Dino. Edith ci ha accolti nel soggiorno in cui anni prima lo schivo Dino si era confessato per ore con lei, continuando a girare per la camera. Nella stessa stanza, nel 2021, papa Francesco è venuto a far visita a Edith. Con Marco Risi abbiamo ricordato alcuni successi del padre Dino, cercando di sfiorare la sua difficile essenza, raccontata dal figlio in Forte respiro rapido (Mondadori, 2020).
Le capita di sognare suo padre?
«Mai. Forse una volta. Non ricordo i sogni».
La prima immagine?
«A viale Parioli, avevo quattro anni. Ha convocato me e mio fratello. Era a letto: “Bambini, venite a sentire la guerra!”. Ci ha fatto appoggiare l’orecchio sulla pancia. C’era un gran gorgoglio (lo accenna). Ero impressionato, divertito».
Gesti di affetto?
«Rari. A tavola, se andava a rispondere al telefono, mi poggiava la mano sulla testa. Misuravo quella pressione. Mio fratello Claudio era più coccolato. Di me diceva: “Il vecchietto”. Claudio era più istintivo, aperto, io chiuso, pensieroso».
La incantava guardarlo rasarsi la barba…
«Era bello il rito. Io entro nel bagno, lui è lì. Come ne I mostri, la scena con Ugo Tognazzi e il figlio di fronte allo specchio. Ricordo (mima con volto e mani) che con il pennello si insaponava. Serrando le labbra diventava tutto bianco. Poi le liberava. Non erano intaccate dal sapone. Riappariva la bocca. Mi piaceva quella magia».
Laico, vi mandava a scuola dai preti. Perché?
«Non gliene fregava niente. Non è mai venuto a prenderci. È arrivato una volta per vedermi giocare a calcio. Disse: “Sei bravo a battere i falli laterali”».
Scrive che un giorno lei è passato dalla parte di sua madre.
«Raramente, ma papà poteva essere crudele. Abitavamo sulla Cassia, avevo tredici anni. Disse qualcosa che ferì mia madre. Lei si alzò da tavola, corse via. Di solito eravamo tre italiani contro la svizzerotta. Lì, invece, andai da lei, rimproverando intimamente mio padre. Mi colpì vederla quasi in ginocchio contro il comò, in lacrime. Mi aspettavo che papà facesse qualcosa, ma lui sapeva che tutto si sarebbe risolto presto. In questo era cinico».
Davvero lo era?
«Sì e no. I cinici spesso lo sono per paura. Sotto la scorza aveva una sua delicatezza e fragilità».
I suoi discutevano?
«No. Mio padre era un rompiscatole e mia madre sopportava. Poi si è stufata, gli ha detto basta, ma noi a quel punto eravamo grandi. A sessant’anni è andato via. Ha preso una stanza per una settimana al Residence Aldrovandi. Ci è rimasto trent’anni. Un giorno ha chiesto di tornare. Lei ha detto: “No”».
Le prime lettere alla moglie sono tenere.
«È difficile dare una definizione di chiunque, di uno come lui ancora di più. Credo fosse stato molto innamorato di mia madre, forse più lui di lei. Poi il cinema, le donne…»
Un giorno entrò, meteora nel cinema e nella vita di Dino Risi, Alicia Brandet.
«Esco dal cinema Fiamma un pomeriggio. Vedo la Mercedes Pagoda di mio padre. Mi fermo. Ci guardiamo. Accanto ha Alicia Brandet. Papà non poteva ignorarmi e per cavarsela disse: “Ah, ti sei messo le mie scarpe?”. Frase che torna ne Il tigre, il film più autobiografico. Stava per lasciare tutto e tutti, come il protagonista».
E voi?
«A tavola chiese: “Ma se io me ne andassi, vi dispiacerebbe?”. Mio fratello disse: “No”. Allora io per recuperare: “Sì, mi dispiacerebbe”».
Era scherzoso?
«Bisognava essere seri sullo scherzo, leggeri sulle cose serie. Pensiamo a Il sorpasso, è considerato una commedia, ma è un film drammatico».
Era il ’62. Sordi rifiutò il ruolo preso da Gassman.
«Sì: “Faccio tutto io, me faccio un culo così, poi er merito se lo pija quell’artro”. Dopo si è pentito. È un film profetico, segna un’epoca: la fine della ricostruzione, delle Vespe, delle Lambrette, dell’Italia felice, la fine dell’innocenza, il via all’Italia della sopraffazione, della furbizia».
Aveva messo qualcosa di sé?
«Molti pensano che il personaggio spaccone di Gassman sia più simile a papà di quello di Trintignant, bravo e ingenuo. Ma no, disprezzava quel tipo arruffone, furbo. Era molto onesto, aveva una disciplina e un’etica severe».
Dava spazio all’improvvisazione?
«Sì. Poi si doppiava tutto. Più c’era casino più mio padre si divertiva. Sarebbe meraviglioso rivedere i film suoi o di Fellini in presa diretta, con le loro indicazioni».
Un esempio?
«Gassman raccontava che sul set de Il sorpasso, nella trattoria di Civitavecchia, si è sentita la sirena di una nave. E papà: “Di’ che un giorno ti imbarchi”. Lui, con naturalezza: “Mi sa che un giorno o l’altro mi imbarco”. Oppure nel Gaucho: “Dai un calcio in culo alla vecchia”. E lui dà un calcio alla Pampanini. Una crudeltà che oggi non sarebbe ammessa. Forse però una volta c’era la vita, oggi tanta finzione».
Com’era sul lavoro?
«Duro. Sono stato una settimana sul set di Profumo di donna. Giravamo su una terrazza napoletana. Una delle ragazze che giocavano a mosca cieca con Gassman – nel film un capitano non vedente – non era spigliata. L’ha insultata tanto che osai: “Be’, papà, basta, stai esagerando”. Gassman, che a un tavolo scriveva il suo Kean, alzò lo sguardo come pensando: “Ahia, questa forse non la doveva dire”. Invece mio padre capì».
E rispetto ai figli registi?
«“Speriamo che non facciano grandi stronzate questi due”, pensava. Girava un soprannome, da Sorrisi e canzoni: “Sor Risi e cazzoni”. Mio fratello e io. Ma mi divertivo, riuscivo a superare tutto questo».
Mai un complimento?
«Quando vide il primo film, Vado a vivere da solo, un modo per cominciare invece di stare a casa a criticare tutto e tutti, mi fece un complimento che non lo era: “Ah, sei un professionista”. Come a dire: “Manca l’anima”».
Il vostro rapporto è cambiato dopo «Mery per sempre». Cosa lo colpì?
«La verità di quei personaggi, quelle facce, quella Palermo. Forse non se lo aspettava, o forse sì. Questo mi piacque, io tenevo moltissimo al suo giudizio».
Gli pesava la solitudine?
«Alla fine tutti siamo soli. Uno come lui, che aveva vissuto veramente la vita, con donne, figli, una moglie deliziosa, quando vedeva che tutto si stava slabbrando, soffriva. Gli amici non c’erano più: Gassman, Tognazzi, Mastroianni, Zapponi, La Pegna. Sta succedendo anche a me, mi stanno morendo tutti: fratelli, amici».
Cosa si prova?
«Lui usava l’immagine del bastoncino piantato al centro di una montagnola di sabbia: “Ogni giorno mi tolgono una fetta di sabbia”. Sempre di più, di più. Fin quando il bastoncino non cade. Così è stato».
Ci ha lasciati Andrea Purgatori, amico con cui sceneggiò nel ‘91 Il muro di gomma, sulla strage di Ustica e che ispirò il personaggio del giornalista Rocco Ferrante. Cosa pensava suo padre di quel film? Di Fortapàsc, che pure avevate scritto insieme nel 2008, cosa avrebbe detto?
«Gli piaceva Purgatori, gli era simpatico ma diffidava di quello che, sotto sotto, considerava l’“impegno” e probabilmente vedeva Il muro di gomma sotto quella luce; per quello non mi disse mai granché sul film. Credo invece che gli sarebbe piaciuto molto Fortapàsc. Su quel set ci siamo incontrati per l’ultima volta».
Come andò?
«Mio padre venne a Castel Volturno, dove giravo. Era sorridente ed era bello averlo lì. Dopo le riprese siamo andati in albergo, doveva tenere una conferenza. C’erano pochissime persone, quindi tutta la troupe si fermò».
E lì?
«Disse una cosa bellissima: raccontò la prima volta che, in Liguria con suo padre, vide il mare. Una strada stretta tra due file di case, all’improvviso la distesa d’acqua azzurra. Quella vista lo emozionò e gli venne da piangere».