Corriere della Sera, 8 agosto 2023
Intervista a Filippo Ganna
Il sesto titolo mondiale, le rimonte a 60 chilometri all’ora. «Duro lavoro, concentrazione e poi libero la mente». E infine «realizzo di aver vinto solo quando vedo il nome».
«I festeggiamenti? Messaggini per ringraziare i familiari dei complimenti, un brindisi veloce con i compagni. Ero talmente cotto che mi sono buttato subito a letto. Dopo una gara c’è sempre un’altra gara, bisogna riposare. Le feste le rimando e alla fine magari le dimentico. Mica sono tipo da grandi cerimonie, io».
Il riposo del guerriero Filippo Ganna poche ore dopo la sesta maglia iridata nell’inseguimento su pista è come sempre riposo attivo: al mattino prova del circuito della crono di venerdì, al pomeriggio disteso sul letto del Crowne Plaza di Glasgow. Sono passati sette anni da quando l’allora sconosciuto diciannovenne piemontese vinse il suo primo titolo a Londra interrompendo un digiuno azzurro che durava da 40 anni (Moser, 1976). Da allora Pippo ci ha stupito in tutti i modi possibili, reggendo sulle sue larghe spalle un ciclismo italiano a corto di fenomeni: dieci titoli mondiali tra strada e pista, una caterva di medaglie europee, l’oro di Tokyo con il quartetto, il record dell’Ora, la maglia rosa al Giro. E domenica la rimonta mozzafiato con cui ha racimolato cinque centesimi di vantaggio sull’inglese Bigham che, meschino, pensava di aver già vinto.
Lei durante le interviste ha la faccia di uno sulla poltrona del dentista. Timidezza o allergia ai giornalisti?
«Odio le domande tutte uguali, odio la pesantezza. Non sono timido, se la questione è interessante rispondo volentieri».
Sabato avete perso la finale a squadre contro la Danimarca sconfitta a Tokyo. Era deluso?
«Si vince, si perde. Ci definiscono “trenino” ma in realtà siamo quattro locomotive. Non è facile arrivare tutti in forma e con la stessa benzina nello stesso giorno alla stessa ora, se qualcuno è in difficoltà il risultato è compromesso. Domenica siamo stati bravi ma non abbiamo vinto. E mi è dispiaciuto, sì».
Per quello ha deciso di correre la prova individuale, poche ore dopo?
«No, l’ho fatto perché il mio coach Marco Villa mi aveva iscritto alla gara. Non lo deluderei mai, è una delle poche persone che contano davvero nella mia vita».
È con Villa che vi scambiate le ultime parole prima del via, muso contro muso. Cosa vi dite?
«Cose nostre, cose che contano. E che non rivelerò mai, né adesso né quando smetto».
Tra un anno a Parigi ci sarà la rivincita olimpica con i danesi.
«Io vedo solo la cronometro e poi le tre settimane della Vuelta a fine agosto. Recuperate le forze, penserò al 2024. L’esperienza e la sconfitta di Glasgow serviranno a capire quante cose ci sono da mettere a punto. Ai Giochi vogliamo vincere di nuovo».
La gara di domenica è stata esaltante e drammatica: a metà gara lei sembrava spacciato, poi il recupero miracoloso. Cosa si percepisce pedalando a 60 all’ora?
«Poco, pochissimo anche se nel delirio e nella fatica estrema devi trovare un pizzico di lucidità per capire come stai andando e se c’è qualcosa che puoi correggere. Ho percepito il ritardo a metà gara, ho realizzato che stavo rimontando nella seconda parte ma di aver vinto l’ho capito vedendo solo il mio nome che lampeggiava sul tabellone».
La sua tattica, vincente e rischiosa, è spingere un rapporto mostruosamente lungo (62x14 o 66x15 denti) che le permette di sviluppare velocità altissime nell’ultima parte ma che rende la bici lentissima in partenza.
«Dietro quella scelta ci sono ragionamenti complicati e un lavoro duro: scegliere il rapporto immaginando la prestazione che si vuole ottenere e la forma del momento, allenare la forza sollevando bilancieri in palestra e consumando la pista per poterlo spingere senza spezzarsi le gambe. E poi una super bici e meccanici bravissimi a eliminare ogni forma di attrito».
È vero che se si prova a far girare i pedali con le mani non si muovono?
«No, non è vero, hanno una scorrevolezza pazzesca: se venite a trovarmi vi faccio vedere. Ma farli girare pedalando in uscita dai blocchi, quella è un’altra storia. Lì è meglio se non ci provate proprio».
Dopo il record dell’Ora lei ha parlato di dolori atroci al sedere per mantenere la posizione. Il dolore dei quattro minuti dell’inseguimento invece?
«È diverso. Il momento più brutto arriva dopo due minuti quando l’acido lattico sale dalle gambe e ti annebbia il cervello e sai che manca ancora molto alla fine. Lì devi trovare qualche secondo di recupero, liberare la mente pur continuando a pedalare a 60 all’ora. Non so come faccio, ma lo faccio quando invece mi verrebbe istintivo rallentare, arrendermi. Ma non si può, non posso».
Venerdì cercherà il terzo titolo nella crono individuale: 47 km invece di quattro, quasi un’ora al posto di quattro minuti, finale in salita e avversari del calibro di Van Aert, Pogacar, Evenepoel e Kung. È masochista?
«No, voglio vincere. Sarà durissima, mi farò come sempre molto molto male, ma ci proverò fino all’ultimo metro».