la Repubblica, 7 agosto 2023
Ritratto di Alexej Navalny
Nella luce sintetica delle cellule fotoelettriche che lo circondano tra le sbarre della prigione, si fa fatica a riconoscere Aleksej Navalny in quella figura smagrita e allucinata che si alza in piedi nella tuta nera dei reclusi, per ascoltare la sentenza che lo condanna a 19 anni di carcere a regime speciale per “estremismo”. Una pena che è un’esclusione perpetua dalla vita civile della Russia per l’uomo di cui Vladimir Putin non pronuncia mail il nome, ma che è ormai da anni il suo vero oppositore, più ancora l’elemento di contraddizione del suo potere, comunque il nemico pubblico numero uno del Cremlino. Le parole della condanna lo hanno raggiunto nel penitenziario IK-6 di Melekhovo, 250 chilometri da Mosca, dove sta scontando un’altra pena per “frode” a 11 anni e mezzo in isolamento davanti a un ritratto di Putin, senza vedere i genitori da un anno, rinchiuso in una cella «grande come la cuccia di un cane» su uno sgabello senza schienale, come hanno denunciato 600 medici russi firmando un appello per la sua salute. Lui aveva calcolato in anticipo con esattezza la nuova condanna, quasi fosse una misura meccanica della sua indagine permanente sul potere: «Il numero di anni di reclusione non ha nessuna importanza – aveva detto tre giorni fa –, perché è comunque una condanna a vita. O per la durata della mia vita, o per quella del regime». Poi ha spostato il problema da lui a noi tutti, in Russia e fuori: «Non perdete la volontà di resistere. Riflettete, agiscono così per intimidire: non me, voi».
Aveva indossato quella tuta carceraria appena rientrato in Russia dalla Germania dopo le tre settimane di coma e la lunga cura per il tè avvelenato dalla polizia segreta russa, secondo la pubblica denuncia ripetuta più volte, in patria e all’estero, cui si aggiungerà la rivelazione dell’agente chimico tossico sparso dall’Fsb, il Servizio di Sicurezza Federale, sulle sue mutande. Non era riuscito nemmeno a raggiungere Mosca, perché gli Organi di sicurezza lo avevano immediatamente arrestato all’aeroporto di Sheremetyevo. Molti non hanno capito nemmeno oggi la scelta di ritornare in Russia dopo che il potere aveva tentato di ucciderlo, quasi fosse l’esibizione di un duello mortale, la mistica del martirio. Ma le cose per Navalny sono più semplici: «Qui è casa mia, e poi io so che ho ragione, e che le accuse criminali lanciate contro di me sono fabbricate a tavolino. Per questo non ho paura e vi chiedo di non avere paura di niente». Questa piena assunzione del rischio, accompagnata da una totale svalutazione della soggezione al potere è la cifra politica dell’ostinazione di Navalny, ciò che lo motiva, lo guida e lo sorregge in una partita con il Cremlino talmente sproporzionata da poter essere giocata soltanto in una dimensione immateriale, dove anche la prigione, la costrizione fisica, il veleno e infine il corpo non riescono a contenere la portata della sfida, e a controllarla.
Lui era già così all’inizio, quando aveva 36 anni. Teneva le mani in tasca, come se il suo corpo fosse già un problema, nella penombradell’internet caffè coreano sulla Nikolymskaja, che considerava il suo ufficio volante. Più che un bar, quelle due stanze a Mosca sembravano la stazione d’ingresso in un mondo a parte, che lui raccontava come possibile. Ogni volta che si apriva la porta, ricominciavano le note di Magic Moments che risuonavano anche giù in fondo, dove Aleksej Navalny riceveva gli ospiti su un divano rosso, il suo posto, davanti al cosiddetto tavolo del dissidente. Ero arrivato fin qui nel febbraio 2012, guidato da Nicola Lombardozzi allora corrispondente di Repubblica dalla Russia e Fiammetta Cucurnia, che conosce ogni angolo di Mosca. Navalny ci aveva portati nella sede del movimento che spontaneamente stava nascendo attorno a lui con la rete che i “criceti” ventenni – come li chiamava Putin – chini sui computer stendevano sotto i nostri occhi, in tutto il Paese, tra uomini e donne sconosciuti, a cui nessuno chiedeva le idee politiche così come non cercava di vender loro una tessera.
La forma dell’ingaggio era nello stesso tempo moderna e pre-politica, e il piffero incantatore di Navalny suonava una musica trasparente e populista, contro la corruzione, che in un sistema bloccato, col vertice fuori da ogni controllo, diventava immediatamente eversiva, oltre che popolare e incandescente.
Il sito internet che radunava il tutto si chiamava RosPil, cioè segatura, lo scarto sporco che resta dopo i lavori. Attraverso le segnalazioni che arrivavano in quel piccolo ufficio vicino al Kolzò si accendeva un faro per illuminare e controllare come venivano spesi i soldi pubblici negli appalti di Stato, dove la corruzione faceva man bassa e ogni anno su 5 trilioni di rubli uno veniva rubato. Ogni denuncia ricevuta diventava pubblica sul sito, 93 avvocati indagavano e se scoprivano abusi presentavano la denuncia, mentre un portafoglio elettronico raccoglieva e rendicontava costantemente i contributi liberi dei cittadini per far fronte alle spese e sostenere la battaglia. Schiacciammo un tasto: al saldo di quel giorno, la “segatura” raccolta da RosPil arrivava a 40 miliardi di rubli, un milione di euro.
Si rischiava ogni giorno la demagogia, naturalmente, e anche la condanna sommaria. Ma si abituava anche la società russa a considerarsi per la prima volta autonoma, capace di iniziative proprie, distinta dal potere e capace di sorvegliarlo, attraverso i “criceti” volontari che spaventavano la nomenklatura di comando, abituata nei decenni a considerarsi “classe eterna”. Per Navalny diventa naturale andare un passo più avanti. Compra un pugno di azioni di società di Stato finite agli oligarchi vicini al Cremlino, va in assemblea dopo aver letto i bilanci, fa le domande che nessuno si è mai sognato di fare, e soprattutto filma tutto e trasmette sul sito. Privo di conoscenza del web, il potere attirato nel nuovo territorio perde l’equilibrio, inciampa. «Non era abituato a questo show quotidiano contro la malversazione. E io mi sono trovato all’improvviso a far politica, senza averlo deciso». Succede all’incrocio tra la nuova popolarità e la libertà sconosciuta: qualcuno chiede a Navalny cosa pensa di Russia Unita, il partito di Putin, lui risponde che è «un partito di ladri e di malfattori», il giudizio filmato corre sul web, si gonfia nelle Rete, diventa una bomba mai sperimentata in Russia, e un certificato politico alternativo.
Mentre raccontava, Navalny si sentiva inafferrabile, quasi invulnerabile. Teneva su una sedia del suo ufficio la borsa del galeotto, con il necessario da portarsi in galera nel caso di un arresto improvviso, come spesso accadeva. Ma aveva scoperto la “quarta dimensione”, conosceva la porta magica da attraversare per raggiungerla, e dunque niente poteva fermarlo. Era quasi come fuoruscire dal proprio corpo, che gli Organi braccavano. «È un conflitto tra vecchio e nuovo mondo. In poco tempo l’esperienza quotidiana ci ha fatto capire che non potevamo usare nessun mezzo fisico, nessuno strumento classico per farci conoscere, nessun sostegno materiale per farci propaganda, perché la polizia è abituata a sorvegliare i corpi, le case, gli scritti, gli oggetti, i comizi, le manifestazioni e i cortei. Così abbiamo rinunciato completamente a volantini, manifesti, giornali, luoghi fisici, tutte cose che gli Organi controllano facilmente. È stato naturale spostarci nello spazio virtuale della Rete. È questa la quarta dimensione, dove loro non riescono a seguirci perché hanno un addestramento fisico, un obiettivo materiale, una cultura corporale. In quel mondo, abbiamo sfruttato la nostra libertà».
Ma in realtà c’è molto di più. Perché inconsapevolmente Navalny riassume nella sua immagine – imprigionata o libera – una metamorfosi storica per la Russia, vale a dire il passaggio dal dissenso all’opposizione. Dallo Zar a Cernenko, le Russie hanno conosciuto in ogni stagione l’eroismo dei dissidenti, ma anche la loro solitudine, l’isolamento, la condanna a vivere la condizione separata e sorvegliata di una testimonianza individuale, sia pure di altissimo valore culturale e spirituale, come quella di Solgenitzin, o di risonanza mondiale ma sperimentata come un obbligo della coscienza personale, come nel caso di Andrej Sakharov. Qui è diverso. Navalny è un soggetto politico vero e proprio, ha dimostrato di poter suscitare un movimento, mobilita i seguaci, è naturalmente candidato a contendere il potere. Rappresenta cioè la radicalità antisistema, dunque l’obiezione permanente, quindi l’opposizione possibile. E per incarnare tutto questo, lui è addirittura disposto a lasciare il corpo in ostaggio al regime: che mentre lo imprigiona lo sente sfuggire, perché coraggio e coerenza non si possono mettere in cella. L’appuntamento è indefinito, ma sicuro, e inquieta il regime perché è una sfida senza scadenza, fuori dal tempo: «Un giorno, prima o poi, la Russia si risveglierà».
Un mese dopo l’incontro con Navalny, quando ho intervistato Putin nella dacia di Novo- Ogarevo, gli ho chiesto come prima domanda se si impegnava a non usare dopo le elezioni il tallone di ferro per schiacciare il dissenso. Seduto sulla punta della sedia, il presidente ha fatto una pausa, si è guardato intorno, poi ha risposto: «Ma di che cosa hanno paura? Io rispetto la piazza, parlo con tutti. E la nostra strategia è quella del dialogo. Perché dovrei usare la forza?» Poi si è appoggiato allo schienale, mentre un cameriere silenzioso serviva il tè.
Dopo l’ultima condanna che cancella l’opposizione per i prossimi trent’anni l’Onu, l’Alto Commissario per i diritti dell’uomo, il presidente del Consiglio Europeo, i premi Nobel denunciano «un simulacro di processo» e chiedono la liberazione immediata di Navalny. Sembra una richiesta impossibile, nel momento in cui l’autorità di Putin è già messa in crisi dal conflitto ucraino, che proprio Navalny ha denunciato come «la guerra più stupida e insensata del XXI secolo». Ma la storia tragica della Russia conosce la follia eroica di Anatolij Marcenko, quando nell’agosto 1986 annuncia uno sciopero della fame ad oltranza con un obiettivo che sembra irraggiungibile, la liberazione di tutti i detenuti politici dell’URSS. Marcenko morirà in carcere stremato dalla sua protesta a dicembre, ma appena sei giorni dopo Sakharov vedrà entrare due operai nella casa dell’esilio a Gor’kij per montare in tutta fretta un collegamento telefonico: a quell’apparecchio appena installato arriverà una sola telefonata, direttamente dal Cremlino. È Mikhail Sergheevic Gorbaciov che cerca Andrej Sakharov per scioglierlo dalla pena del confino e annunciargli che lui e la moglie Elena Bonner possono ritornare a Mosca quando vogliono. Navalny lo sa: in Russia la follia estrema per la libertà non è mai folle.