la Repubblica, 7 agosto 2023
Rondini morte di freddo
Giusto il giorno prima del grande freddo, i nipotini avevano finito di costruire le basi dei nuovi nidi, per propiziare il ritorno delle rondini la primavera successiva. Noi tutti volevamo averne tante, perché la casa fosse benedetta. Con la supervisione di Mitja, un vicino dalle mani d’oro che li accoglieva volentieri nel suo affascinante laboratorio, i piccoli avevano tagliato e piallato tavole di legno per assemblarle a triangolo e fissarle al soffitto della rimessa, dove le rondini tornavano da sempre. Da 170 anni almeno, quando la casa fu costruita e la rimessaera ancorauna stalla.
Questa primavera erano tornate più numerose del solito. Considerata la loro vita media, si trattava almeno della quarantesima generazione che con stupefacente precisione topografica tornava sempre nello stesso posto, dopo un volo di duemila chilometri almeno dall’Africa del Nord. Avevano invaso ogni spazio utile per nidificare e di giorno avevano popolato la ragnatela di fili della luce che sovrastava il centro del paese. Ogni mattina salutavano l’inizio del giorno con concertidi trilli. Il fienile di uno dei vicini ne era pieno. Almeno quindici famiglie, quindici nidi con un tappetino di escrementi bianco- neri alla base e unfrenetico andirivieni attraverso l’unica finestra. Le tenevano volentieri, perché portavano fortuna, benedicevano la casa. Tutto il villaggio le aveva accolte bene, quasi con sollievo. Un anno prima, incendi apocalittici avevano sterminato le foreste delle vicinanze, ma loro si erano dimostrate più forti del disastro climatico. Il loro ritorno rappresentava la continuità della vita.
Da marzo a settembre, la porta della mia rimessa doveva restare aperta per loro. Sulla porta avevo fissato un cartello bilingue con la scritta “Attenzione rondini! Vietato chiudere!”. Mi svegliavano di buon’ora con un fitto chiacchiericcio davanti alla finestra. Mentre i nati di giugno erano fuori a scuola di volo, quelli della seconda nidiata stavano arroccati nel nido della rimessa. Resistevano a tutto, anche al traffico di operai che stavano sostituendo la caldaia e consolidando il soffitto. Trapani, colpi di martello: niente li stanava. Il gioco preferito di Mili, la gatta, era tentare di acchiapparle al volo sulla soglia mentre uscivano o rientravano per nutrire i piccoli, ma quelle non si facevano beccare e, anzi, la sfottevano con planate minatorie appena fuori portata dei suoi artigli.
La mattina dopo venne novembre, con tre mesi di anticipo. Piovve con violenza per quaranta ore, in un susseguirsi martellante di fulmini. Una tempesta elettromagnetica. La cisterna grande si riempì fino all’orlo e il suo perimetro si affollò di rane impazzite. Poi mezza Slovenia fu devastata, fiumi d’acqua invasero i paesi nelle vicinanze. Da 30 gradi, la temperatura scese a 10, e tale rimase per un pomeriggio, una notte e un altro giorno ancora. Gli insetti smisero di volare, sottraendo il cibo alle rondini. Fu una notte orrenda, interminabile. Gli adulti non potevano volare. Gli ultimi nati rimasero a digiuno e andarono in ipotermia. Una cr eatura di venti grammi si spegne in pochi minuti. Già dopo poche ore trovammo uno dei cinque cuccioli stecchito sul cemento. Il mattino dopo, altri tre batuffoli stecchiti. Dopo poche ore anche gli adulti scomparvero. Sfortuna! Dopo 170 anni, la rimessa rimaneva vuota, perdeva gli inquilini di sempre. In molte altre case i nidi erano deserti. Altri nuovi nati giacevano per terra. Era scattata la grande fuga, e la legge della sopravvivenza imponeva di abbandonare i più deboli. Le amiche bianche e nere se n’erano andate, con più di un mese di anticipo, e in paese anche i contadini più duri erano tristi. Uomini abituati alla vicinanza di orsi, linci e cinghiali. Uomini per i quali la pioggia è una benedizione. Qualcosa si era rotto nel cielo.
È successo da poche ore, ma ho usato lo stesso il passato remoto. Si adatta meglio a rappresentare qualcosa di definitivo. Quei fili della luce vuoti, quel silenzio nelle stalle e sui cornicioni mettono tutti noi di fronte a qualcosa di epocale. Oggi piove ancora. Sotto la grondaia di casa, due rondini adulte rimaste aspettano che smetta. Poche altre, infreddolite, cercano di volare ancora. In città non se ne accorgerebbe nessuno, il dolore degli animali non affiora. Nei piccoli paesi è un’altra cosa. Le rondini fanno parte di una comunità e oggi gli abitanti guardano il cielo. In loro arde la speranza di un ritorno. Ma nel villaggio non si muove quasi nulla. Il silenzio, il vuoto