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 2023  agosto 07 Lunedì calendario

Dani Alves e gli stupri nel pallone se la violenza fa parte del gioco

Una storia universale è quella di Dani Alves. Un calciatore così unico da aver vinto (Messi permettendo) più di ogni altro: 43 trofei. Ma incorso in un’accusa di violenza sessuale per la quale è stato rinviato a giudizio e rischia fino a dieci anni di carcere. Quale che sia il verdetto, nel suo comportamento, da lui stesso ammesso, è insita una nota che lo rende comune a un’intera categoria: quella del maschio ricco e famoso. Sottocategoria: quella del calciatore. Per una coincidenza che non determina la generalizzazione, ma dà comunque da pensare, è addirittura possibile creare una regolare formazione da 11 con gli accusati di questo reato, aggiungendovi anche le riserve in panchina e l’allenatore. Per dire: in porta può essere schierato l’israeliano Boris Kleiman, che in un locale si avvicinò a una diciassettenne belga in gita, stordita dall’alcol, e cercò di spingerla a un rapporto, finché intervennero i compagni di scuola. A centrocampo, addirittura un campione del mondo, l’argentino Thiago Almada, un caso ancora aperto: presunto stupro durante una festa, che avrebbe commesso insieme con il collega Miguel Brizuela e l’unico arrestato e detenuto, l’oscuro allenatore Juan Jose Acuna. In attacco, il celebre Robinho, lui sì già condannato per violenza in una discoteca a Milano, insieme con quattro complici, ma mai estradato dal Brasile. Nella rosa figurano figli d’arte: Portanova (il più discusso perché, benchè condannato a sei anni in primo grado, proprio ieri ha debuttato in Coppa Italia con la maglia della Reggiana), poi Apolloni e Lucarelli. Addirittura un «blocco» (o un branco): quello composto da 5 calciatori della Virtus Verona (Casarotto, Manfrin, Merci, Onescu, Visentin) poi sparpagliati in altre squadre. Un possibile recidivo: lo stesso Visentin, argentino, accusato due volte in sette mesi. Per la panchina, un candidato fresco fresco: Bruce Mwape, tecnico della nazionale femminile dello Zambia, deferito alla Fifa per molestie (esiste un video in cui lo si vede palpare il seno di una giocatrice), ma sostenuto dalla sua federazione per i buoni risultati ottenuti, tra cui la qualificazione ai Mondiali in corso.
È uno dei punti dolenti: le società che impiegano questi atleti non hanno un atteggiamento comune. Le federazioni si rimettono, in attesa di una sentenza definitiva, alla loro discrezione e presunta sensibilità. Come è stato fatto notare di recente proprio nel caso Portanova: «La materia non è di nostra competenza». Così c’è chi sospende (il Cittadella lo fece subito con Casarotto, poi anche con Visentin) e chi no (la Virtus Verona mantenne in organico Manfrin). Il Velez soltanto temporaneamente con Thiago Almada. In Inghilterra sono più severi, ma l’esclusione di Benjamin Mendy da parte del City dopo l’assoluzione da sette accuse di stupro potrebbe far cambiare verso. Al di là delle sentenze, che cosa ci dice di universale il caso Dani Alves per tutti questi analoghi, riguardanti calciatori e non?
L’intervista di due ore rilasciata dal carcere a una televisione spagnola andrebbe studiata come un manuale di sopraffazione inconsapevole. Il pluricampione entra nel locale con alcuni amici e viene scortato al tavolo vip. Qui, racconta, «come d’uso» il gestore manda loro delle ragazze. Già questa scena ha un che di feudale. Siccome però le prescelte non li entusiasmano l’occhio cade su un trio appena entrato con altrettanti giovani messicani «che – dice Alves – mi avevano riconosciuto» e, da bravi valvassini, cedono la loro compagnia femminile ai signori del luogo. Bevono, ballano, la situazione si fa incandescente. La conclusione non può avvenire in un luogo dove Alves, sposato, potrebbe essere fotografato. Va in bagno e invita una delle ragazze a seguirlo. Qui, riferisce, attende a lungo, poi, quando è già stanco di aspettare (quanto può durare la sua pazienza?) lei finalmente arriva. Quello che si consuma è, per sua ammissione, un «rapporto unilaterale», per così dire: lui seduto sulla tazza, lei inginocchiata tra le sue gambe, intrappolata, mani in testa. Fatto, finito, lui torna al tavolo, è tardi, la famiglia lo aspetta, si alza, vede la stessa ragazza in un angolo, sconvolta, esce. «Se qualcosa non andava, perché non mi hanno fermato?». Che cosa non andasse in questa sequenza, non lo capisce. È lo stesso deficit che porta il padre del dj presente in casa La Russa la notte della presunta violenza a considerare che suo figlio piace, ha soldi, è conosciuto, può avere tutte le ragazze che vuole, perché dovrebbe forzarle? Che indusse Chad Evans e Clayton McDonald dello Sheffield United, accusati di stupro nel 2011, a difendersi in questa maniera: «Avremmo potuto avere qualsiasi donna in quel locale. Siamo calciatori, siamo ricchi, questo piace alle donne. Piace anche avere due calciatori in una volta sola». Che ha indotto Lautaro Martinez a rispondere così, prima della festa dopo i Mondiali, a una domanda sul compagno sotto inchiesta: «Non devo rispondere, oggi dobbiamo solo divertirci». A queste parole sono seguiti applausi.
Di nuovo, senza voler colpevolizzare un’intera categoria: se tre o più indizi portano a una prova, che cosa dimostrano 13 vicende simili? Questo vale sia per le azioni che per la reazione alle stesse. Ci sono troppe circostanze che la legge dovrebbe semplicemente considerare limite invalicabile senza consentire la discrezionalità, invocata da chi crede che tutto sia a sua discrezione: l’uso di alcol e droghe, la molteplicità dei partecipanti maschi al rapporto. Le due cose, sommate, già dovrebbero cancellare la possibilità del consenso, data l’inferiorità del soggetto. Ancor di più occorrerebbe una seria riflessione dai vertici alla base di un mondo che invece continua a sentirsi a parte per diritto acquisito e con l’idea che esista una sorta di grazia concessa dalla vittoria, in Argentina come in Zambia. Anche questo sa di antico, di medievale: al cavaliere che vince il torneo è concesso di prendere una vergine tra le figlie del popolo. E quest’ultimo applaude perché «oggi è il giorno in cui dobbiamo solo divertirci». Ma chi si diverte veramente? E come?