la Repubblica, 6 agosto 2023
Bibi Netanyahu, il Machiavelli che ha spaccato in due Israele
Stiamo vivendo un periodo di rabbia. Di una rivolta impressionante, in cui intere fasce della società israeliana – medici, scienziati, artisti, militari, ma anche degli ambienti degli affari, femministi e LGBT+ che si oppongono all’occupazione della Cisgiordania e difendono i diritti dell’uomo convergono in un unico movimento di centinaia di migliaia di persone, come non si era mai visto in Israele.
Si tratta di un evento di portata storica. Tutte queste persone rispondono a un invito straordinario che le esorta a risvegliarsi per tentare di evitare che il Paese scivoli verso un regime autocratico e dittatoriale.
Nei settori creativi, dell’economia e delle arti, alcuni talenti già minacciano di andarsene. Il Paese potrebbe perdere i suoi elementi più moderni. Questo movimento di rivolta cittadina, che va avanti in tutto il Paese da più di sei mesi, merita una riflessione.
Settimana dopo settimana, centinaia di migliaia di persone si riuniscono per bloccare le autostrade e gli incroci e manifestare nelle piazze, anche durante la settimana. Il movimento nasce dalla rabbia contro un potere che rischia di mandare il Paese in frantumi, al solo scopo di soddisfare i desideri dei suoi alleati ultra-nazionalisti e razzisti, oltre chequelli degli ultra-ortodossi reazionari, anche a rischio di marginalizzare i settori più produttivi della società.
Una simile rivolta, che non ha precedenti in Israele e avviene nel momento in cui il Paese celebra il suo settantacinquesimo anniversario, ci pone la seguente domanda: cosa possono fare i cittadini per porre fine a questo processo di distruzione?
Ora che la legge è stata approvata, il movimento di protesta non si attenua, anzi.
Ed è questo il motivo per cui non ho perso del tutto la speranza. La strategia di Benjamin Netanyahu è quella di creare il caos per poter poi controllare la situazione. Questa volta, però, il caos è talmente rilevante e generalizzato da sfuggire al suo controllo. Perché non può controllare il presidente americano Joe Biden, né gli Emirati Arabi – che annullano la sua visita. Non può controllare il dieci per cento dei medici, che annunciano di voler lasciare il Paese, né i giovani dottori che hanno terminato gli studi all’estero e non rientreranno in patria. Non controlla quel migliaio di piloti che hanno fatto sapere di non avere intenzione di volare e di rischiare la propria vita per un dittatore. Né può controllare un vecchio capo del Mossad, che paragona certi membri del governo Netanyahu al Ku Klux Klan, o i veterani dell’unità d’élite Egoz – dove ho svolto il mio servizio di leva obbligatorio – che invitano ad opporsi “agli ordini dei furfanti, dei criminali corrotti e dei parassiti, che sono all’origine del colpo di Stato”. Non può controllare gli accademici e gli storici, i quali ricordano come, quasi duemila anni fa, Gerusalemme cadde e fu distrutta dai romani a causa dell’intransigenza e del fanatismo degli zeloti, che provocarono la fine della sovranità ebraica, la partenza degli ebrei in esilio e secoli di sofferenza e di persecuzioni.
Questa volta Netanyahu è sopraffatto dal caos che lui stesso ha creato e che è molto più diffuso di quanto egli non avesse previsto. Ed è per questo che la tenacia, il coraggio e la determinazione di queste centinaia di migliaia di manifestanti – (tra cui si contano anche personaggi come Shikma Bressler, scienziata e ricercatrice dell’Istituto Weizmann) che da più di sei mesi ogni sabato, ma anche durante la settimana, scendono in strada – produce alla lunga un simile impatto.
Questa volta non è detto che l’attuale primo ministro israeliano, questo Machiavelli, questo manipolatore, riesca a controllarli. Certo, prevedere il futuro è impossibile, ma occorre tenere alta la speranza, e augurarsi che l’imponente impegno di queste centinaia di migliaia di cittadini che manifestano in tutto il Paese – daTel-Aviv a Be’er-Sheva, passando per Haifa, Gerusalemme ma anche in villaggi e città di medie dimensioni – vada avanti. E che in questo modo si inauguri una riflessione sulla natura dei rapporti tra Israele e la regione che lo circonda, e in particolare tra Israele e i palestinesi, al fine di creare un nuovo modus vivendi.
I mascalzoni di cui Netanyahu si è circondato, sia al governo che in Parlamento, continuano a spingersi oltre con le provocazioni e questo induce di fatto a interrogarsi sulla legittimità delle azioni del governo.
L’attuale risveglio della società israeliana testimonia l’importanza della dimensione collettiva e della capacità di opporre, insieme, una resistenza, ed è impressionante. Ma anche molto importante.
Dico spesso che faccio film in quanto cittadino e in quanto testimone della storia del mio Paese. Un testimone che prende parte agli eventi, come nel caso di “Kippur” (2000), o de “L’ultimo giorno di Ytzhak Rabin” (2015), incentrato sull’assassinio del primo ministro ucciso nel 1995 da uno studente ebreo simpatizzante dell’estrema destra. A spingermi a girare quel film non fu l’ammirazione verso un leader politico (di solito non ammiro queste persone, a prescindere dal fatto di essere contro o a favore le loro idee) bensì il rispetto nei confronti della sua sincerità, che in politica è merce assai rara. Pur essendo stato un generale vittorioso, Rabin era pronto ad andare contro corrente e disposto a cercare delle soluzioni, e in questo senso si è dimostrato al tempo stesso realista e visionario. Provò, trent’anni fa, a tracciare un percorso, a proporre un’alternativa praticabile in questo Medio Oriente assai complicato. E pensava che dire la verità fosse la base per andare avanti. Il suo assassinio ha posto fine a questi sforzi.
Il mio amico Chema Prado, ex direttore della Cineteca spagnola, mi ha detto di recente: «Amos, ci vorrà del tempo. Guarda cosa è accaduto in Spagna: è lo stesso modello di Franco, che poggiava su una chiesa cattolica molto reazionaria e si opponeva alla sinistra e a tutto ciò che era progressista». Ad avere la meglio, purtroppo, sono stati gli ultra-nazionalisti spagnoli e Guernica, il bel quadro di Picasso, rappresenta ciò che sul piano politico è stato sconfitto. Sul piano culturale, invece, Guernica ha vinto, perché ha fissato nella memoria il ricordo del bombardamento di un piccolo villaggio basco da parte degli aerei della Luftwaffe.
E questo solleva un’altra questione, ovvero: cosa possiamo fare noi? Noi: gli scrittori, gli artisti, i pittori, gli uomini e le donne di teatro o di cinema... Quel che facciamo è totalmente inutile? Perché è assai possibile che non riusciremo ad ostacolare delle forze così feroci. È possibile che si possa perdere? Sì, è possibile. Purtroppo è addirittura probabile.
Questo non significa però che ciò che facciamo sia inutile perché, secondo me, la memoria non è innocente. La memoria ha un proprio modo delicato di mettersi al passo. Quando l’attuale primo ministro socialdemocratico della Spagna ha rimosso il feretro di Franco dal mausoleo kitsch in cui era stato interrato per trasferirlo altrove, lo ha fatto esclusivamente per la memoria, e non per altro motivo.
In diversi Paesi del mondo osserviamo le tendenze revisioniste dei vari Netanyahu, decisi a riscrivere la storia per accedere al potere o per mantenerlo. Questo non significa che anche noi dobbiamo fare della demagogia e cercare di indottrinare la gente. Dobbiamo dire la verità. Occorre parlare delle contraddizioni, occorre mantenere alta la speranza, anche quando sappiamo che nel pianeta questi leader politici distruttori sono sempre più numerosi.
La legge (che limita i poteri della Corte Suprema, ndr )è stata approvata, ma le manifestazioni non si attenuano. Ed è per questo che mi dico che paradossalmente stiamo forse assistendo all’inizio di una nuova strada che ci poterà verso un futuro più incoraggiante. Ma restiamo prudenti. E manteniamo la speranza. La speranza che la generazione che verrà continuerà a lottare per salvare le istituzioni democratiche di Israele e per trovare un modo per convivere con i palestinesi.