La Stampa, 6 agosto 2023
Via Poma, un’altra pista
Non è che via Poma ricomincia da capo. Via Poma non è mai finita, è una storia che insegue quello che siamo diventati in tutto questo tempo che se n’è andato, 33 anni di misteri e di processi, di carne e sangue. E di fantasmi. Attorno al corpo straziato di Simonetta Cesaroni ce ne sono stati tanti. E adesso che la relazione della Commissione parlamentare Antimafia inviata alla Procura ha chiesto di riaprire le indagini, continuiamo a percorrere sempre la stessa strada e a rifarci le stesse domande, nel grande buio che nasconde la verità.
In quelle 32 pagine arrivate ai magistrati sono annotate due cose soprattutto. La prima riguarda una macchia di sangue di gruppo A positivo, repertata dalla polizia sulla maniglia di una porta, mai presa in considerazione dagli investigatori, e comunque «appartenente a un soggetto fino ad ora ignoto», visto che «non ha trovato corrispondenza e compatibilità con i sospettati che sono stati indagati nel corso degli anni». La seconda racconta di una telefonata fra la moglie di Mario Macinati, factotum dell’avvocato Francesco Caracciolo di Sarno, presidente degli Ostelli, uno dei datori di lavoro della vittima, e suo figlio Giuseppe. La signora dice di aver ricevuto più di una telefonata – almeno tre – quel pomeriggio del 7 agosto 1990, da un uomo che voleva mettersi in contatto con Caracciolo e che «faceva espressa menzione della notizia di una persona deceduta». Quelle telefonate, inoltre, «non arrivarono tra le 20 e le 23, quando fu scoperto il cadavere di Simonetta Cesaroni, ma nel tardo pomeriggio». Secondo la Commissione questa informazione poteva essere fornita soltanto da «una persona che si fosse introdotta nell’appartamento scoprendo il cadavere e che avesse deliberatamente deciso di non dare l’allarme, ma di informare per primo il Caracciolo».
A questo punto, sostiene l’Antimafia, vi fu con ogni probabilità un’attività «post delictum intesa ad occultare l’omicidio». E «resta ragionevole credere che l’omicida fu persona che aveva un notevole livello di dimestichezza con lo stabile, se non proprio con l’appartamento. Si deve essere altresì trattato di qualcuno che poteva contare su un rapporto di confidenza con la vittima e che era in grado di approfittare della fiducia di Simonetta». Come se si volesse dare un corpo a questo fantasma, si sottolinea poi quanto sia altamente «probabile che l’omicida sia di gruppo sanguigno A, perché sarebbe altrimenti poco spiegabile che a tale gruppo sanguigno debbano essere ricondotte le macchie ematiche rinvenute su interno, esterno e maniglia della porta che apre la stanza dove venne ritrovato il cadavere». Cioè, era qualcuno che conosceva bene il palazzo, che aveva confidenza con Simonetta, ma che forse fino adesso non è mai stato sospettato. L’indagine è andata anche in questa direzione, ma sempre girandoci attorno.
Ha cominciato così da quella sera, quando Paola Cesaroni si spaventò non sentendo più sua sorella e decise di chiamare uno dei titolari dell’ufficio, Salvatore Volponi. Quando entrano c’è una luce accesa in fondo, e un grande silenzio: si sente appena il ronzio delle lampadine. Percorrono il corridoio, poi lui si affaccia in una stanza e indietreggia subito. Simonetta era stesa sul pavimento, con la testa rivolta alla porta in un lago di sangue, seminuda, il corpetto sollevato sul seno scoperto, ma i calzini bianchi ancora ai piedi, e Salvatore Volponi cercò solo di fermare sulla soglia la sorella, per risparmiarle la vista di quello strazio. Giaceva scomposta, le gambe divaricate e i segni di 29 coltellate, anche in faccia, agli occhi. Era stata uccisa con rabbia, colpita su tutto il corpo da un’arma appuntita, forse un tagliacarte, o uno spadino, come lascia intendere adesso la Commissione parlamentare, e sul seno c’era anche quello che sembrava un morso.
Da allora abbiamo inseguito una verità stordita da tutto questo tempo che è passato. Si è partiti due giorni dopo, con i sospetti su Pietrino Vanacore, e alla fine è arrivata la sua strana morte a Torricella, Taranto, annegato in un metro d’acqua dopo aver lasciato un biglietto sul cruscotto della macchina: «Vent’anni di sospetti ti portano al suicidio». Ma in mezzo c’è stata la pista su Federico Valle subito scartata, e ci sono stati i tre processi all’ex fidanzato Raniero Busco, con cui lei aveva appena litigato prima di morire, assolto in appello e Cassazione. Indizi trascurati e interrogatori mancati, macchie di sangue analizzate dopo vent’anni, tutto in quest’indagine infinita, fra tracce ignorate e inspiegabili depistaggi, è sembrato essere maledettamente lacunoso, intricato e confuso. Non è mancato niente a un caso come questo. È il brutto dei misteri, che ti offuscano la mente. Perché li facciamo più grandi se non riusciamo a capirli. E invece lo sappiamo che molte volte non li capiamo solo per colpa nostra