La Stampa, 6 agosto 2023
Quando la mafia uccideva d’estate
Il 28 luglio del 1985 era una domenica d’estate e il commissario Beppe Montana, in forza alla sezione investigativa (antimafia) della squadra mobile di Palermo, diretta dal vicequestore Ninni Cassarà, entrava nel suo primo giorno di ferie dopo una lunga e laboriosa guerra ingaggiata con la mafia di Ciaculli, quella più «titolata», che aveva fatto registrare buoni successi come il ritrovamento dell’arsenale del mandamento governato da don Michele Greco detto «Il Papa» e una serie di catture di buoni latitanti come Nino Vernengo della omonima «famiglia» in quel tempo plenipotenziaria del traffico della droga.
Per festeggiare l’inizio delle vacanze Beppe aveva organizzato «una carbonella» nella casa che, insieme con la fidanzata Assia, aveva preso in affitto a Mongerbino, sul litorale tra Bagheria e Termini Imerese che guarda a Capo Zafferano, il golfo magnificato da Goethe nel suo celebratissimo viaggio. Ovviamente aveva invitato il suo capo e amico, Ninni, e la moglie Laura. Ed aveva aggiunto un gruppetto di amici, quasi tutti cronisti, tra cui il sottoscritto. Nessun altro poliziotto, perché Beppe e Ninni non erano proprio a loro agio con molti colleghi e superiori della mobile di Palermo, tranne poche eccezioni (come l’ispettore Pippo Giordano e l’agente Natale Mondo, due macchine da guerra). Erano troppo «disinvolti» nelle indagini e si muovevano senza timori reverenziali e con poche cautele, insomma poco timorosi della «palude» che li circondava ed era riuscita ad impadronirsi del ventre molle di una città che preferiva non vedere e non sapere. Saggio atteggiamento attecchito anche in uffici (come il Palazzo di giustizia) che, invece, avrebbe dovuto «vedere» per obblighi istituzionali.
Ma in quella calda domenica estiva, piena di luce come solo Palermo può dare, la comitiva per una volta non aveva cattivi pensieri. I «fuochisti» si dedicavano al barbecue, Assia organizzava la tavola e il gruppo si sceglieva ognuno cosa fare per rendere più lieve il lavoro dei padroni di casa. Arrivò la notizia che Ninni e Laura erano stati trattenuti a Palermo da improvvisi impegni familiari e così ebbe inizio la «scampagnata», conclusa con l’immancabile chitarra che Beppe maneggiò tenendo Assia seduta sulle gambe. Così li fotografai e quello fu l’ultimo scatto che esiste di Beppe e Assia.
Si fece l’ora del ritorno al lavoro e il gruppo di giornalisti dovette salutare perché la domenica eravamo tutti impegnati nelle pagine sportive, il valore aggiunto delle edizioni del lunedì. Al momento dei saluti Beppe mi invitò ad andare con lui in motoscafo fino al rimessaggio di Porticello dove avrebbe tirato a secco la barca. Gli risposi che mi sarebbe piaciuto davvero, ma non volevo mettere in crisi i colleghi che sarebbero rimasti a lavorare anche per me. Ci salutammo fraternamente con l’impegno di rivederci presto.
Ebbi il tempo di sedermi alla scrivania del giornale, poi un quarto d’ora, mezz’ora dopo squillò il telefono: «Hanno ammazzato Beppe Montana». Lo avevano atteso al rimessaggio: un gioco da ragazzi ucciderlo con le pallottole ad espansione, visto che Beppe era pure disarmato, come si conviene ad un poliziotto in ferie. Furono in tre a sparare: Pino Greco, Giuseppe Lucchese e Agostino Marino Mannoia. Qualche tempo prima, davanti allo scempio provocato dall’attentato dinamitardo della «strage Chinnici», Beppe aveva dichiarato pubblicamente: «A Palermo siamo poco più di una decina a costituire un reale pericolo per la mafia. E i loro killer ci conoscono tutti. Siamo bersagli facili purtroppo. E se i mafiosi decidono di ammazzarci possono farlo senza difficoltà». E tre giorni prima di morire aveva arrestato un gruppo di fedelissimi di don Michele Greco, aggiungendo un motivo d’odio in più, odio che lo avrebbe portato, lui catanese, a morire a 34 anni nella città rivale che affermava di «non capire». E davanti al cadavere dell’amico, Ninni Cassarà si rivolse a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, accorsi sull’eco dei colpi di calibro 38 sparati a Porticello, dicendo: «Convinciamoci che siamo dei morti che camminano».
Era così Beppe, cresciuto in una famiglia «sana», conquistato dal vento del ‘68, laureato in Giurisprudenza, ma non divenuto avvocato per scelta. Per questo si era ritrovato in sintonia con Ninni Cassarà, di quattro anni più grande, ma animato dall’identica vocazione legalitaria e dal rispetto per la legge.
L’assassinio di Beppe Montana fu un colpo duro per la sezione investigativa e per l’intera città che già di lutti ne aveva subìti parecchi. Anche perché cominciavano ad emergere particolari sulle condizioni in cui erano costretti a lavorare i pochi uomini delegati alla lotta alla mafia. Venne fuori che lo stesso Montana, con l’appoggio del solito Cassarà, era riuscito a metter su la prima «squadra catturandi», cacciatori di latitanti, che, seppure senza risorse, qualche fastidio cominciava a dare. Poi aveva scelto di abitare in una villetta ad Aspra, poco lontano da Mongerbino, nel cuore del regno dei traffici mafiosi che lui «monitorava» con un binocolo notturno, senza sospettare che le altre case attorno alla sua erano abitate da «sentinelle» dei trafficanti di droga. Fu un dirigente superiore che gli impose di lasciare quell’abitazione, troppo scoperta, troppo pericolosa, per un’altra in un anonimo condominio della Palermo «asfaltata» dal «sacco di Ciancimino» dei tempi d’oro di droga e cemento. E anche la scelta della villa di Mongerbino di quella domenica funesta non sembra fosse dettata esclusivamente dalla bellezza naturale di Capo Zafferano. No, sembra che Beppe fosse riuscito ad «agganciare» una donna, l’amante del killer Pino Greco detto «Scarpuzzedda» (uno dei tre killer che lo avrebbero ucciso), e questa gli avesse rivelato uno dei luoghi dei suoi incontri amorosi col boss: una villa a Mongerbino, non lontana da quella presa in affitto dal poliziotto. Insomma Montana si agitava assai, troppo per la «palude».
Le indagini, quasi naturalmente, furono prese dalla sezione investigativa di Ninni. Furono giorni convulsi e, caso raro nella storia delle inchieste siciliane, nacque persino una proficua collaborazione fra polizia e carabinieri.
Poi un piccolo colpo di fortuna. Qualcuno annotò i primi numeri di una moto che abbandonava di corsa il rimessaggio dove era appena caduto Beppe. Non fu difficile per la polizia risalire al proprietario: Salvatore Marino, titolare di una rivendita di cozze e ricci di mare, ma anche conosciuto e stimato calciatore semiprofessionista. Il giovane fu preso a casa e portato alla squadra mobile dove fornì una serie di notizie ai controlli risultate false. Una perquisizione aveva fatto scoprire 34 milioni in banconote avvolte in un giornale che recava la data dell’omicidio Montana. Chiamato a giustificare il possesso di quella cifra, disse che erano soldi datigli dalla società di calcio per cui era tesserato. Ma la notizia fu smentita dai dirigenti, così, man mano che si affastellavano nuovi indizi, si andava radicando negli uomini che lo interrogavano la certezza che il giovane calciatore fosse in qualche modo invischiato nell’omicidio.
Poi diede pure un alibi falso. Disse che all’ora della morte di Montana lui si trovava a Palermo da certi amici di cui fornì nomi e cognomi. Peccato che, interrogati dalla polizia, i testi negarono di essere stati in compagnia di Marino. Così la tensione cresceva e, ogni volta che si apriva la porta dell’ufficio dove Marino veniva interrogato, usciva l’agente Natale Mondo per dire: «Ci siamo, tra un po’ crolla e confessa». Il culmine delle aspettative arrivò quando a casa di Marino venne trovata una maglietta imbrattata di sangue senza che il giovane sapesse darne spiegazione. Lì si deve essere rotto un equilibrio per lasciare il posto ad una sorta di impazzimento generale. Cassarà non era in ufficio e forse questo contribuì a provocare l’irreparabile. Qualcuno provò a forzare la mano, decidendo di ricorrere all’interrogatorio con la «cassetta». In pratica il waterboarding molto usato poi a Guantanamo. Si tratta di una tortura: l’indiziato reticente viene disteso supino su una cassetta che gli inarca la schiena e viene costretto a bere acqua e sale attraverso un imbuto tenuto fermo in gola. È un’operazione che di solito veniva fatta da marescialli d’esperienza perché si rischiava di uccidere l’indiziato. Cosa che avvenne con Marino, morto per lo sfondamento della trachea provocato dall’imbuto mal piazzato.
Facile immaginare cosa possa essere accaduto, quella sera, alla mobile di Palermo. Cassarà tornò in ufficio precipitosamente per ritrovarsi con un indiziato ucciso e con la certezza di aver oltretutto perso il biglietto della lotteria rappresentato da Marino che forse avrebbe potuto portare a tutti gli assassini di Montana.
Ma Cassarà era il capo di quel manipolo di uomini ora disperati e spettava a lui trovare soluzioni. Operazione non facile perché tutto giocava contro quella folle decisione di «forzare la mano con l’interrogatorio». Senza contare che, da quando Marino era stato portato vivo alla mobile, i suoi familiari non si erano allontanati un attimo ed aspettavano che uscisse per riportarlo a casa, convinti che il ragazzo l’avrebbe sfangata. Ma il tempo passava e di Marino non si sapeva più nulla.
Ma anche dentro quegli uffici non stavano bene. A un certo punto il capo della mobile abbandona l’ufficio giustificando la dipartita con la necessità di andare a cambiare la camicia. E poi i giornali, i cronisti. Avrò chiamato mille volte Ninni e mille volte non aprì bocca tradendo un imbarazzo che non scemava neppure davanti alle mie offerte d’aiuto: perché si capiva che qualcosa era accaduto, qualcosa di grave. Fino a quando gli uffici scelgono la via più ardua e pericolosa. E, mentre Cassarà tenta la carta disperata di chiedere aiuto a Giovanni Falcone, comincia a farsi strada l’idea che si rivelerà un boomerang.
Falcone non può far nulla per aiutare Cassarà, consapevole che ogni tentativo di mettere una toppa si sarebbe rivelato un rimedio peggiore del male. E allora via verso il baratro. Nella più completa assenza dei vertici della questura, che si guarda bene dal farsi coinvolgere, tutto viene affidato alla mobile che viene fuori con la notizia del ritrovamento di un cadavere nel mare di Sant’Erasmo irriconoscibile per la permanenza eccessiva in acqua. Si precisa, anzi, che «potrebbe trattarsi di un uomo di colore». E invece era Marino, finito inspiegabilmente annegato senza mai essere uscito dagli uffici della squadra mobile. In un velocissimo colloquio avuto con uno dei dirigenti dissi subito che quella bufala non avrebbe resistito un minuto, visto anche lo schieramento di avvocati già pronti all’assalto. Ma furono irremovibili: «Questo sappiamo e questo vi diciamo. Punto».
La morte atroce di Salvatore Marino si rivela, com’è ovvio, una bomba, una bomba enorme che ha il potere di far perdere credibilità ad una intera stagione di lotta alla mafia costata lacrime e sangue.
L’icona di questa Waterloo è rappresentata dalla bara bianca con Marino portata in spalla dai picciotti della Kalsa, quartiere di origine del giovane calciatore, al ritmo dello slogan «Poliziotti assassini». Un funerale ad alta tensione, politicizzato dalla presenza di Marco Pannella.
Ma verrà dallo Stato l’inevitabile, drastica decisione giunta per mano dell’allora ministro Oscar Luigi Scalfaro: azzerare tutti i vertici della squadra mobile e rimuovere il capitano dei carabinieri che collaborava alle indagini. Siamo al 5 agosto.
Di fronte all’ondata di critiche Ninni Cassarà aveva reagito, anche senza molta lucidità, ma è comprensibile se si tiene conto di quelle condizioni ambientali. La domenica precedente al 6 agosto, giorno in cui verrà ucciso con una plateale mobilitazione di tutte le «famiglie di Cosa nostra», Ninni mi chiama a casa e mi invita nel suo ufficio. Voleva rilasciarmi una intervista che ad una semplice lettura si rivelava una sorta di testamento. Soprattutto laddove se la prendeva «coi soliti Soloni che se ne stanno coi piedi al calduccio, mentre quattro disperati disarmati e mal organizzati combattono una battaglia impari». Gli sconsigliai di rilasciare dichiarazioni di quel tenore con ogni evidenza riferibili ai suoi superiori e al ministero. Lui mi accusò di pavidità e io replicai: «Non ho paura per me, ma per te. Questa intervista è la certificazione della tua solitudine. Chi legge intuisce subito la rottura al vostro interno e la mafia sa cogliere i segnali. Si convincerà che sei stato mollato da tutti e potrà colpirti perché sei diventato un bersaglio facile che non sta a cuore a nessuno». Non ci fu verso, ci lasciammo così: «Io non la scrivo questa intervista». «Va bene, ci penso io». La diede all’Ansa e due giorni dopo scattò l’agguato in via Croce Rossa.
Ninni tornava a casa dopo giorni di assenza «precauzionale». Nessuno sapeva che sarebbe tornato, ma i killer lo seppero. Una talpa? Forse. Arrivò in auto col fidatissimo Roberto Antiochia, un giovanissimo agente che gli faceva da scorta sebbene fosse in ferie e il solito, inseparabile Natale Mondo. L’auto fu investita da 100 colpi di kalashnikov sparati da una finestra di fronte, mentre Laura poteva osservare tutto affacciata al balcone con Elvira, l’ultima figlia appena arrivata, in braccio. Antiochia viene colpito subito, Ninni ha il tempo di varcare il portone ma viene colpito alla nuca da un proiettile, uno solo, di rimbalzo e muore prima di giungere all’ascensore. Era il 6 agosto, trentotto anni fa come oggi.
Natale Mondo la fa franca perché cerca protezione sotto l’auto blindata. La mafia regolerà i conti con lui qualche anno più avanti, dopo che si era dovuto difendere, con successo ma a prezzo di sangue, dall’infamante accusa di essere stato la talpa che aveva tradito Ninni.
Morì così uno dei più brillanti e puliti investigatori di Palermo. Ha pagato il non voler seguire i «consigli» alla prudenza che gli venivano dalla «palude» e non è servito a salvarlo il suo eccezionale «stato di servizio»: le indagini sulla «Pizza connection», la fertilissima collaborazione con Giovanni Falcone, il lavoro massacrante nella ricerca dei riscontri alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta, l’aver convinto Totuccio Contorno a collaborare quando ancora non era ufficialmente un pentito, il rapporto dei «162» che diventerà la cellula primordiale del maxi-processo istruito dal pool antimafia guidato da Falcone e Borsellino. Ma quello che certamente il potere mafioso non gli ha mai perdonato è la testimonianza del marzo del 1984 al processo per la strage Chinnici. Andò davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta a confermare che il consigliere istruttore era stato ucciso alla vigilia dell’emissione di mandati di cattura contro i grandi esattori Nino e Ignazio Salvo. Particolare non indifferente che, però, investigatori e magistrati di prima grandezza avevano negato, balbettando il rituale: «Vostro onore non ricordo bene». Ma il potere, soprattutto quello mafioso, ricorda, perché ha la memoria lunga