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 2023  agosto 06 Domenica calendario

Mangiare a Parigi

Estratto di Tra i pasti di James Salter, edizioni Settecolori
Abbott Joseph Liebling (1904-63) piaceva alle donne. Calvo, sovrappeso e buon mangiatore, così si descriveva. Mangiava e beveva troppo. Era timido e incline a lunghi silenzi. Portava gli occhiali. Aveva i piedi piatti e camminava con fatica, soprattutto nella mezza età, quand’era diventato talmente grasso che secondo un collega scrittore era impossibile camminargli accanto sul marciapiede. Soffriva di gotta. Nonostante ciò, le donne gli si affezionavano, anche le più belle. Come spiegò a un amico, era perché le faceva sentire intelligenti. Non si trattava di una tattica, era sincero.
Figlio di un immigrato che aveva fatto fortuna con il commercio di pellicce, Liebling si ribellò all’educazione borghese. Fu sempre attratto dagli elementi disdicevoli della società, dalla parte più oscura della vita, da chi viveva di espedienti, e scrisse di piccoli truffatori, politici e imbroglioni. Era lo strato dickensiano della città a interessarlo. Le sue simpatie andavano all’uomo qualunque, al diseredato; gli piacevano le persone che conducevano esistenze non convenzionali. Si sentiva a suo agio con loro e loro con lui, un omone disordinato con la faccia cordiale e l’ombelico che spuntava da una camicia sbottonata. Scriveva particolarmente bene di pugilato, del sordido ed eccitante mondo dei boxeur, dei loro manager e allenatori. Anche lui aveva praticato un po’ di boxe, senza grandi risultati, e conservava un grande interesse per quello sport.
Quando Liebling compì ventidue anni, suo padre, che aveva conosciuto il piacere del tempo libero soltanto in tarda età, gli fece generosamente dono di un anno di studi alla Sorbona, e il centro emotivo di questo libro è proprio la cronaca di quell’anno.
Era l’anno accademico 1926-27, e la Parigi che scoprì è come l’Alessandria di Kavafis, l’Albany di William Kennedy o la Chicago di Saul Bellow: una città vista principalmente dal basso, con occasionali scorci dei regni superiori.
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Il libro è una sorta di guida a una Parigi leggendaria, alcune parti della quale non esistono più. Era la stessa Parigi di cui si innamorarono Hemingway e Gertrude Stein, una città che negli anni Venti era stremata dai quattro anni di guerra, dalle enormi perdite subite, e che usciva esausta dal trionfo finale. Una città dal volto ancora incantevole, e tuttavia l’incarnato aveva perduto l’originale freschezza, sulla fronte e intorno alla bocca si vedevano rughe sottili.
Era una città di lussi e di luci e, naturalmente, dei loro opposti estremi, grigiore e povertà. Ma allora Parigi era, e per molti versi rimane ancora, la prima tra tutte le città del mondo. Il modo di vivere francese, il modo di pensare francese, la letteratura francese, l’arte, il cinema, la cucina, per non parlare dell’architettura, dei transatlantici, delle automobili: erano questi gli standard più elevati che si conoscessero, e li si guarda ancora oggi con ammirazione.
E naturalmente era una città poco costosa, magnifica e poco costosa in un modo che non si può più nemmeno immaginare. Un dollaro valeva ventisei franchi e una cena al Lapèrouse ne costava cinquanta. Trovare un alloggio era facile e la disinvoltura e la sessualità della città abbagliavano, soprattutto gli americani che avevano conosciuto solo il puritanesimo del loro paese, il suo materialismo, l’indifferenza per l’arte e l’ignoranza della storia. Venivano in Francia per respirare aria nuova. E vennero in molti, scrittori americani e non, e alcuni di loro scrissero libri importanti. Beckett era appena arrivato e presto avrebbe incontrato James Joyce; c’era Jean Rhys, Ford Madox Ford aveva fondato la Transatlantic Review, Ezra Pound stava levando le tende per andare a vivere a Rapallo, e Henry Miller era in avvicinamento. Liebling era lontano da tutto questo, fuori dal giro degli scrittori. Non aveva mai pubblicato niente, aveva solo ventidue anni e idee molto particolari sul piacere: amava camminare, leggere, non disdegnava gli agi, amava soprattutto la buona cucina.
Di quei giorni dice, in una semplice ma bellissima frase: «Ero spesso solo, ma raramente soffrivo la solitudine». Un’affermazione che Pascal avrebbe apprezzato.
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Liebling tornò a Parigi molte volte: nel 1939, dopo un’assenza di dodici anni, come corrispondente di guerra per il «New Yorker», nel 1944, quando la città fu liberata, poi in varie occasioni dopo la guerra, e la sua attenzione si spostò gradualmente verso l’alto, dal V e VI arrondissement al II e oltre, verso il XVI, vale a dire dall’ambito accademico a quello mercantile. In quegli anni il suo interesse per il cibo divenne ancora più ossessivo. Avrebbe voluto intitolare gli articoli da cui è nato il libro Recollections of a Gourmet in France, ma il suo editore protestò che non era possibile definirlo gourmet e così divenne «mangiatore». Ormai era diventato un ghiottone leggendario. Comunque fosse cominciata, la passione per la buona cucina si era trasformata in una parte essenziale della sua persona, era consolazione, ribellione, motivo di orgoglio, ma alla fine tanti peccati di gola gli causarono problemi ai reni e al cuore; le mani e i piedi, e persino le orecchie, furono sfigurati dalla gotta. Nei suoi ultimi anni ebbe momenti di grave depressione e picchi maniacali. Aveva rinunciato ad aver cura del proprio aspetto, eppure viveva con sfarzo, la figliastra frequentava scuole private, la moglie vestiva con stile. In mezzo a tutto questo, ricordò e mise sulla carta una visione pura degli anni della sua giovinezza. Pur non essendo un romanzo, questo libro ne ha la presa: ci sono dialoghi, personaggi, descrizioni e la firma inconfondibile di un vero scrittore; in ogni pagina o quasi si intravede un intero libro sprecato. Il risultato è di una freschezza sorprendente e merita di stare sullo stesso scaffale di Festa mobile.
Nonostante il suo talento non riuscì a ritagliarsi un posto duraturo nella Storia e visse una vita mutevole, quasi precaria, come i soggetti che preferiva. Lo incontrai una volta, intorno al 1960, negli uffici del «New Yorker». Era sera e la redazione pareva deserta. Lui indossava un abito scuro con l’insegna della Legion d’Onore appuntata sul bavero. Dava l’impressione di essere timido e camminava con difficoltà, come se soffrisse, come se i suoi piedi fossero troppo delicati per il resto della struttura corporea. Portava un paio di occhiali rotondi con la montatura d’acciaio. La sua testa calva sembrava un po’ malconcia, come una vecchia tortiera. Non ricordo niente di quel che disse. Fu un incontro molto breve.
Morì tre anni dopo. Le sue ultime parole furono pronunciate nell’ambulanza che lo trasferiva da un ospedale a un altro. Non fu possibile capirle, ma erano in francese. È sepolto a Springs, all’estremità orientale di Long Island, dove per alcuni anni ebbe una casa. Il suo luminoso racconto continua a vivere e possiede molte delle qualità che attribuiva ai suoi vini preferiti. Stimola i sensi, aiuta a chiarirsi le idee e offre un senso di approvazione per la vita simile a quello che si prova nei buoni musei o passeggiando lungo strade molto belle.