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 2023  agosto 05 Sabato calendario

Intervista a Diego Abatantuono


Più di 800 chilometri in Statale fino a Vieste?
«Certo. L’idea geniale era sempre una: la partenza di notte che non c’è nessuno e c’è il fresco». Un classico italico, la trovata senza tempo e a volte senza senso, la partenza in controtendenza per poi spesso ritrovarsi tutti in coda.
Diego Abatantuono ha gli occhi a bancomat, il sorriso sornione e beffardo, l’abbronzatura da tizzone spento; un affabulatore, una miniera di ricordi che sembrano anche inventati, perché nella memoria scova anche le minuzie: «Guardi, ogni storia che le racconto potrebbe durare tutto il giornale...».
Proviamo a sintetizzare: Vieste, i viaggi da bambino...
«Il viaggio più affascinante è legato a quei ricordi, quando andavo in vacanza sul Gargano, a Vieste, il paese dove è nato mio padre. Facevamo il campeggio libero sulla spiaggia, una spiaggia completamente diversa da oggi, era deserta, a due chilometri si intravedeva al massimo una tenda di qualche olandese o svedese, gli unici ad avventurarsi».
Niente elettricità, niente acqua. Selvaggi.
«Ci mettevamo di fianco a un ruscello di acqua dolce freddissima che faceva da frigorifero, mettevamo dentro il burro, le bottiglie d’acqua. Serviva per lavare i piatti, per fare la doccia: era un ruscello multifunzione».
Soli o accompagnati?
«Con altre famiglie, tre o quattro; mettevamo le tende a semicerchio vista mare. Io entravo in acqua all’arrivo e uscivo dal mare solo per dormire. Stavo a bagnomaria per tutto il resto della giornata, poi né mio papà né mia mamma si preoccupavano di darmi raccomandazioni sul bagno dopo pranzo: mangiavamo direttamente in acqua fettone di pane pugliese con pomodoro olio e sale».
Il viaggio?
«I miei genitori e i loro amici cominciavano già durante l’inverno a pensare alle innovazioni per l’estate successiva tipo la tenda in più da usare come cucina. Non facevamo l’autostrada, all’inizio perché non c’era poi perché comunque costava e bisognava risparmiare».
Tutto in Statale...
«Se me vegn sogn, se fermum, se mi viene sonno ci fermiamo, diceva mio padre. Parlava milanese ormai».
Il caricamento della macchina era un altro rito.
«In quella macchina c’era tutta la nostra vita: bici, tende, materassi, materassini, pinne, maschere, gonfiabili, l’auto era farcita che nemmeno un toast. E poi gli scambi».
Che scambi?
«Un papà dava una mamma in cambio di due bambini perché noi piccoli volevamo fare il viaggio insieme. Si ballava così, c’era questo scambio di mamme che non so se abbia portato anche ad altro, era il gioco delle tre mamme... Si partiva di notte, tutti gasati».
Sempre la stessa auto?
«Mio papà faceva un po’ il figo con le macchine, le cambiava spesso, le prendeva anche in funzione di quel viaggio. Un anno avevamo un pullmino piccolo della Fiat, e per tutto l’anno siamo andati in giro con il pullmino, andavo a scuola così. Arrivavo in ritardo, senza il fiocco e pure con il pullmino, veda lei...».
Tutta una tirata?
«Eh no, quanta fretta. C’erano le tappe, ci fermavano nelle famose osterie dei camionisti, ma alle cinque del mattino non c’era niente da mangiare... Ci mettevamo quasi due giorni, la logica era arrivare di giorno per montare la tenda con la luce».
Un viaggio affascinante...
«La litoranea è meravigliosa, ma se sei sulla barca, dalla strada mica tanto... E poi in Puglia non c’era la strada che c’è oggi, si girava largo, fino a Foggia, poi per una statale tutta curve si arrivava a Mattinata. Quella strada era un inferno di caldo, nausea e vomito. Arrivavamo sfiniti, il bambino vomitante era un bel problema».
Finalmente in acqua.
«Eh no, vegn chi che ghe da munta’ la tenda. Tutti dovevano aiutare... Poi eravamo liberi. Ho vissuto nel mare, nella mia vita sono stato in acqua finché ho potuto».
Cosa altro facevate?
«Si andava a raccogliere la legna per il fuoco sulla spiaggia, cucinavamo i peperoni arrostiti, le salsicce, le patate nella stagnola, le polpette. Sarà da lì che ho sviluppato l’amore per il cibo, tanto da aprirci cinque ristoranti, il Meatball Family».
La sera?
«Non c’era turismo, andavamo in paese, c’era un cinema all’aperto, con la luna e il faro di Vieste sullo sfondo, noi bambini ci addormentavamo perché eravamo cotti. Anche se sulle sedie di ferro era faticoso, allora portavamo i cuscini, c’era chi veniva direttamente con la sdraio, oppure chi incastrava il materassino sgonfio nella seggiola. Ricordo i panzerotti incandescenti, ci bruciavamo la bocca e diventavamo tutti dei Belén. Era una vacanza straordinaria. Siamo andati lì da quando avevo tre mesi – sicuro mi avevano concepito lì i miei l’anno prima – fino ai 15 anni quando ho iniziato ad andare per conto mio».
Ha viaggiato tanto anche per lavoro.
«In quel caso entri in un altro meccanismo, conosci le persone in un altro modo, conosci sfaccettature che da turista non riesci a cogliere. Sono stato in Marocco tante volte, un posto che mi ha stregato, mi piace da matti la gente, mi diverto a contrattare e comprare nei mercati».
Tutti pensiamo a «Marrakech Express», il film di Salvatores, 1989.
«Ma ci ero già stato l’anno prima per Il segreto del Sahara, miniserie di Alberto Negrin con un cast pazzesco: Ben Kingsley, Andie MacDowell, David Soul, Miguel Bosé... Negrin mi disse: vieni, vedrai che ti diverti, ci sarà sangue, sudore e polvere. Gli risposi che io con sangue, sudore e polvere non mi diverto un cazzo. La verità è che non faccio questo mestiere perché ho il sacro fuoco dell’attore, avevo intuito che se fosse andata bene avrei passato metà della vita in giro».
Un cast pazzesco, e come compagni di viaggio?
«Partimmo da Roma per Casablanca in aereo; David Soul, il biondo di Starsky & Hutch, aveva anche delle velleità non corrisposte da cantante folk e purtroppo si era portato una chitarra: ci scassò i maroni per tutto il volo. Mi sembrava un incubo, avevo il magone per aver lasciato la figlia piccola nata da poco, avevo la sensazione di andare al militare. Pensavo: ho fatto una cazzata a partire, il sangue, il sudore, il cumino, il country... che pirla».
Folk a parte, andò meglio?
«Anche questa storia potrebbe durare tutto il giornale, cerco di sintetizzarla... Dovevamo girare tutte le scene con i cammelli, ma a me pareva strano fare ‘sto cinema con i cammelli: io li vedevo solo sputare e recalcitrare».
Non proprio mansueti.
«Li tenevano fermi con anelli di ferro nel naso e una corda legata che gli piegava la zampa. Stavano imbizzarriti tutto il giorno, litigavano e sputavano. A un certo punto spunta questo William West McNamara, forse nipote del generale, che per fare il figo sale sul cammello: l’animale va in sbattimento, strappa l’anello del naso e sanguinante con McNamara in groppa parte a cento all’ora verso le dune del deserto. Ricordo l’attrezzista, Gianni Fiume, detto Johnny River, che parte a piedi a rincorrerlo. Non ne abbiamo saputo più niente per ore. Da lì tutti hanno iniziato a dubitare dei cammelli. La verità è che il cammello fa quel cazzo che vuole».