Corriere della Sera, 5 agosto 2023
Roberta ScorraneseIl fondatore del Sermig: «Da piccolo ero l’asino di casa»Ottantatré anni, salernitano trapiantato a Torino, nel 1964 Ernesto Olivero ha fondato il Sermig (Servizio Missionario Giovani) e quarant’anni fa l’Arsenale della Pace, che ha dato e dà alloggio e ristoro a persone che hanno bisogno
Roberta Scorranese
Il fondatore del Sermig: «Da piccolo ero l’asino di casa»
Ottantatré anni, salernitano trapiantato a Torino, nel 1964 Ernesto Olivero ha fondato il Sermig (Servizio Missionario Giovani) e quarant’anni fa l’Arsenale della Pace, che ha dato e dà alloggio e ristoro a persone che hanno bisogno. Un ricordo della sua infanzia?
«Ultimo di undici figli, la mia era una famiglia povera ma dignitosa: papà lavorava all’ufficio del registro e il suo era l’unico stipendio di casa. Una infanzia felice, nonostante i miei clamorosi insuccessi scolastici. Sono stato rimandato e bocciato diverse volte. Un giorno i miei fratelli sono andati in delegazione da mamma a lamentarsi che io ero l’asino di casa, ma lei rispose: “State tranquilli, Ernesto farà altro nella vita!”. Mamma e papà sono mancati a distanza di neanche un anno, io avevo 20 anni».
Come è arrivato a Torino?
«Con la mia famiglia siamo emigrati al Nord nel 1949. Quando siamo scesi dal treno faceva freddo, non eravamo abituati al clima di qui. A Chieri ho avuto un impatto molto duro: se a Salerno mi chiamavano “il piemontese” perché papà era di Boves, in Piemonte mi chiamavano “il terrone”. Ho fatto a pugni diverse volte, ne ho prese ma ne ho date tante. È nata in quegli anni l’amicizia con Carlo Maria Martini, allora giovane prete. Per un periodo ho lavorato nel Mulino Chierese che era stato acquistato dal partito comunista di Bologna. Parlavo a tutti di Dio, poi un giorno venne il direttore e mi dissero: “Olivero, ci converta pure tutti ma la prego lasci stare il direttore, altrimenti che figura ci facciamo?”. Poi è arrivata la proposta della Banca San Paolo».
Com’era Torino negli Anni 60?
«Era la Torino della Fiat, di Gianni Agnelli, delle prime tensioni sociali. Era un’epoca violenta di contestazioni e rivendicazioni che poi portarono al terrorismo. Gli Anni ’70 furono terribili. Ricordo l’omicidio di Carlo Casalegno, di tanti innocenti. Ogni giorno, morti, persone gambizzate. Se non ti schieravi era come se non contassi nulla. Non ha idea di quante volte mi chiesero di prendere posizione contro la Chiesa, di aderire a qualche ideologia. Ti volevano conservatore o progressista. Io non capivo. Le etichette erano troppo strette per contenere grandi ideali. Io volevo essere semplicemente cristiano, aperto al dialogo. È in quegli anni che è nato il Sermig».
Lei lasciò il posto in banca e si dedicò a questa «creatura», che si allontana dall’idea tradizionale di missione cristiana per dedicarsi ai poveri, ai drogati delle città. Come andò?
«Nel 1991, ricevetti una telefonata da parte di un uomo di Dio con cui ogni tanto mi confrontavo. “Se ritiene, può licenziarsi”, mi disse. Ne parlai con mia moglie Maria e lei mi appoggiò. Decisi di fare così, senza rimpianti, vivendo poi della mia pensione. Da quel momento, il mio impegno è diventato da 24 ore su 24».
Come ha scelto proprio quell’arsenale?
«L’Arsenale non lo abbiamo scelto, lo abbiamo sognato. Negli Anni ’70 decisi che avrei portato a papa Paolo VI il disagio di tante persone che conoscevamo e che sentivano la Chiesa ricca distante dai problemi. Riuscii a incontrarlo a tu per tu. Lui mi abbracciò e mi diede ragione. “Faccia lei quello che chiede a me”. Anni dopo scoprimmo che l’arsenale era proprio lì (zona Porta Palazzo, ndr.). Ma era davvero un rudere, servivano molti miliardi per rimetterlo a posto e noi non avevamo una lira. Il patto era chiaro: il Comune ce lo avrebbe affidato a condizione che fossimo noi a rimetterlo a posto».
Si mossero migliaia di volontari.
«La notizia di un gruppo di giovani che volevano trasformare un arsenale di guerra diventò contagiosa. In breve tempo siamo stati travolti di richieste: giovani e adulti, gruppi di ogni tipo. Poi sono arrivati i professionisti. Ricordo Giulio Pizzetti, un docente di fama del Politecnico di Torino che per mesi venne in incognito».
Tre persone che le sono state vicine in quell’avventura.
«Penso all’amicizia con “giganti” come Madre Teresa di Calcutta, papa Giovanni Paolo II, don Luciano Mendes de Almeida, presidente dei vescovi brasiliani, il mio migliore amico. Ricordo quando andai a piangere da Madre Teresa per alcune calunnie ricevute e lei con un sorriso mi consolò ricordandomi che ognuno ragiona in base al marciume che ha dentro. Una figura decisiva è stata il cardinale Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino in quegli anni».
Chissà quante storie.
«Anni ’80, in piena emergenza droga. Mi chiama una amica, giudice di sorveglianza: “Ernesto, abbiamo un caso disperato. Potete accoglierlo? Vi costerà 15 giorni e una cassa da morto”. Nicola arrivò in Arsenale che era l’ombra di sé stesso. Lo guardai negli occhi: “Non hai molto tempo davanti. Perché non provi a cambiare almeno adesso? La droga fa schifo. Noi faremo di tutto per aiutarti”. Nicola si fidò. Lo avvolgemmo di cure, di delicatezza, di ascolto. Visse semplicemente con noi».
Avete accolto anche Pietro Cavallero.
L’arrivo al Nord
Avevo nove anni, ricordo il freddo. A Salerno mi chiamavano
«il piemontese», a Torino «il terrone» Ho tirato tanti pugni, ma ne ho anche presi
«Uno dei banditi più feroci del secolo scorso, un assassino. Dopo molti anni di carcere, chiese di venire all’Arsenale in regime di semilibertà. Arrivò spavaldo, ma dopo sei mesi, me lo ritrovai in stanza. “Ernesto, voi accogliete tutti e l’ho visto. Qui Dio esiste». Poi aggiunse: “Ma io ho ucciso, devo espiare, devo chiedere perdono”. Rimasi senza parole, ma ricordo che quella notte fu come luce. Posso testimoniare che Pietro visse i suoi ultimi anni da convertito, quasi nascosto. Chiese perdono alle famiglie delle vittime, al cardinale Martini come rappresentante di Milano, la città dove aveva fatto del male».
E come è cambiato il Sermig nel tempo?
«Iniziammo sostenendo i progetti dei missionari in ogni Continente. Poi, abbiamo cominciato a inviare aiuti umanitari. Ho ancora negli occhi le oltre 1.600 tonnellate di cibo e farmaci raccolti in poche settimane e inviati in Ucraina l’anno scorso. Quando siamo entrati all’Arsenale non avrei mai immaginato di trovare alla porta ex terroristi che chiedevano di cambiare vita, ragazzi che non avevano dove dormire, donne che volevano lasciare la vita di strada, giovani che cercavano il senso della vita. Noi non ci siamo mai sottratti. La chiave è sempre stata quella dell’imprevisto accolto. Oggi negli Arsenali di Torino, San Paolo in Brasile e Madaba in Giordania accogliamo quasi duemila persone».
L’hanno accusata di megalomania.
«A volte, il mio modo di fare è stato equivocato. Prenda l’Arsenale. All’inizio molti dicevano che sarebbe stata la mia tomba e quella del Sermig. Tanti amici non mi vennero dietro in quel progetto pensando alla sproporzione che avevamo davanti. Ricordo un confronto molto franco con il mio arcivescovo, il cardinale Saldarini che negli Anni ’90 mi convocò per avere dei chiarimenti. Stava molto sulle sue. “Mi dicono che non hai debiti perché sei amico dei politici. Cosa rispondi?”. Erano gli anni di Tangentopoli e delle inchieste su politica e mafia. Gridai: “Lo vuole capire che quello che facciamo, lo facciamo per i poveri e per avvicinare l’uomo a Dio? Le porto i bilanci”. Dopo un po’, ricevetti una busta: c’era un assegno e un suo biglietto con scritto “Il tuo cardinale è con te”».
All’inaugurazione venne Pertini.
«Erano passati pochi mesi dal nostro ingresso nell’Arsenale e c’erano ancora macerie ovunque. Il Presidente lo venne a sapere e quando gli parlai mi disse che sarebbe venuto lui a inaugurarlo. “Presidente, non c’è nulla da inaugurare, sono solo macerie”. “Ho detto che vengo io!”, mi rispose. Così avvenne. Da allora ogni presidente della Repubblica è passato dall’Arsenale, compreso Sergio Mattarella con cui è nata un’amicizia profondissima».
Come si regge una struttura simile?
«Dall’inizio rendicontiamo tutto: viviamo e operiamo di provvidenza. In quasi 60 anni di storia del Sermig, abbiamo realizzato quasi 4 mila progetti di sviluppo in ogni Continente, 77 missioni di pace, offrendo 18 milioni di notti di ospitalità, 600 mila visite gratuite. La chiave di tutto è la restituzione. Il 93% del nostro bilancio è coperto dagli aiuti della gente, piccole donazioni, quasi 30 milioni di ore di volontariato offerte da persone, credenti e non credenti. Io dico sempre che se la gente smettesse di aiutarci, gli Arsenali chiuderebbero in tre giorni».
Sermig è anche in altri Paesi e il suo nome è stato fatto spesso per il Nobel della Pace. Come siete visti all’estero?
«Come Sermig, abbiamo aperto l’Arsenale della Speranza a San Paolo del Brasile, impegnato nell’accoglienza degli uomini di strada, e l’Arsenale dell’Incontro a Madaba, in Giordania, una casa che accoglie bambini e ragazzi disabili sia cristiani che musulmani. Siamo sempre andati in altri Paesi in punta di piedi».
Ricordi dal mondo in fiamme?
«Sono tanti. Ricordo la paura della Polonia del 1982 durante la repressione di Solidarnosc, i palazzi sventrati a Baghdad o a Beirut, la devastazione di Mogadiscio. C’è però un’immagine che non potrò mai cancellare. Ero in Rwanda, poco dopo il genocidio del 1994. Ho ancora davanti agli occhi il corpo di un bambino con la testa mozzata da un machete. Vicino a lui c’era ancora il suo biberon di legno. Quel biberon oggi è custodito all’Arsenale. È prezioso».
Come ha conosciuto sua moglie Maria?
«Avevo 22 anni. L’ho vista in bicicletta dalla finestra del Mulino, in cui lavoravo. Pensai che sarebbe diventata mia moglie. La sua era una famiglia “bene”, la mia povera, ma mi accolsero. Mi presentò suo padre. Ci sposammo, il 24 aprile del 1965. La nostra famiglia poi si allargò ai nostri tre figli: Lidia, Sandro e Andrea».
Maria non c’è più. Come affronta Ernesto Olivero il dolore?
«Maria per certi aspetti c’è ancora più di prima. Continuo a sentirla presente in me. E non è retorica. Il dolore c’è, è umano, fa parte di noi, a volte toglie il respiro. Lo guardo in faccia e, come mi hanno insegnato tante persone, provo a viverlo con le braccia aperte. Per me è così, ma rispetto sempre chi si sente schiacciato».