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 2023  agosto 05 Sabato calendario

Manuale di storia Meloni dove il Msi è democratico e i neofascisti sono martiri

ROMA – I missini hanno sempre avuto un problema con la storia nazionale. Principalmente perché non ne hanno gradito il corso nel Novecento. Nel 2002 Azione studentesca, il movimento giovanile di Alleanza nazionale in cui militavano gli studenti delle scuole superiori, erede della fascistissima Fare fronte come An lo era del Movimento sociale, fece una campagna “contro le falsificazioni” nell’insegnamento della storia a scuola e mise all’indice una serie di libri di testo. In quella lista di volumi da boicottare o da bruciare in piazza c’erano i manuali su cui hanno studiato alcuni milioni di italiani: il Camera-Fabietti, l’Ortoleva-Revelli, ilGiardina-Sabbatucci. I giovani camerati li accusavano di faziosità, filocomunismo, censura e altre imputazioni minori. In quello stesso anno An, il partito da cui ha preso vita Fratelli d’Italia e che all’epoca governava l’Italia insieme a Forza Italia e Lega, come oggi, propose in Commissione Cultura l’istituzione di una commissione di verifica sull’obiettività dei manuali di storia per le scuole. In pratica, il bollino del governo sui testi scolastici, un’idea di Stato etico un filo più pervasiva di quella che il renziano Francesco Bonifazi attribuisce a Carlo Calenda quando il secondo sindaca sulle cene del primo al Twiga di Daniela Santanchè. Non era, quella dei postfascisti in Parlamento, una proposta originale. L’avevaavanzata già due anni prima Fabio Rampelli, oggi vicepresidente della Camera e al tempo consigliere regionale del Lazio. Come è noto, Rampelli era stato nei Novanta il capo di Giorgia Meloni nella comunità dei Gabbiani, la corrente romana mistico-sociale di An, e la stessa Meloni in quel 2002 – aveva 25 anni – era la coordinatrice del movimento giovanile di An dopo essere stata pochi anni prima a capo proprio di Azione studentesca.
Oggi che Fratelli d’Italia, ultima insegna della ditta missina, governa il Paese, è ancora più chiaro come avrebbe agito quella commissione, e che libri di testo avrebbe partorito la risciacquatura dei manuali nelle acque rampelliane ieri e meloniane oggi: un’Italia alternativa e parallela, una storia al contrario, una ucronia, ma più Pingitore che Roth o Dick, nella quale il fascismo è criticato solo per aver “conculcato la democrazia” (l’espressione è di Meloni, lettera alCorriere della sera del 25 aprile scorso) e per aver varato le leggi razziali, il resto è omesso quando non riabilitato; abolito il ruolo politico e morale della Resistenza partigiana, l’antifascismo è rimosso o citato pansianamente come criminale attività di vendetta su fascisti inermi a guerra finita (nella lettera al Corsera la presidente del Consiglio non ha mai usato la parola Resistenza, l’ha evocata solo per dire che la Liberazione “non segnò la fine della sanguinosa guerra civile che aveva lacerato il popolo italiano, che in alcuni territori si protrasse e divise persino singole famiglie, travolte da una spirale di odio che portò a esecuzioni sommarie anche diversi mesi dopo la fine del conflitto”); l’antifascismo è menzionato solo per deplorare la sua versione “militante”, come Meloni ha fatto nel discorso di insediamento alla Camera, cioè la persecuzione dei giovani neofascisti negli anni Settanta, rappresentati come martiri protocristiani, braccati per il coraggio delle loro idee, o meglio dell’Idea, che nel lessico missino stava per fascismo; negate anche davanti all’evidenza le responsabilità neofasciste nelle stragi, da piazza Fontana a Milano nel 1969 fino alla bomba di Bologna nel 1980, e contestate le condanne definitive a quei neofascisti stragisti che frequentavano le stesse sezioni e le stesse piazze dei giovani missini e che spesso con loro erano amici per la pelle, quella degli altri, di solito. Per capire come mai la presidente del Consiglio, tenendosi rispetto ad altre dichiarazioni del passato, abbia continuato l’altro giorno su Bologna a parlare di verità da cercare, basti pensare che per anni lo slogan con cui l’ultradestra ha negato responsabilità sulla strage alla stazione era: “Nessuno di noi era a Bologna”. Nessuno di noi camerati, cioè.
Questa è la storia che leggeremmo, se la destra al governo scrivesse la storia, come in effetti ormai scrive. Un Paese tutto al rovescio,dove i fascisti hanno difeso la nazione anziché mandarla al macello e consegnarla ai nazisti, dove il Msi difendeva il popolo mentre i partiti democratici rubavano. Ancora nel discorso di insediamento Meloni ha rivendicato di aver militato da giovane nella “destra democratica”. Ha detto così parlando del Msi: destra democratica, forse volendosi approfittare della giovane età di qualche interlocutore o sperando che altri potessero confondere il fatto che il Msi partecipava alla contesa elettorale ed era rappresentato in Parlamento con la sua adesione ai valori della democrazia liberale. Pino Rauti, che aveva fondato Ordine nuovo, la formazione extraparlamentare da cui mossero i carnefici di piazza Fontana e piazza della Loggia, e che alla fine degli anni Ottanta fu segretario del Msi, diceva che la democrazia era un veleno e che il suo partito era contrario “perché non crede all’uguaglianza tra uomini ma alla differenza tra uomini”. Era l’unico punto su cui Giorgio Almirante, il mito di Meloni, acerrimo rivale di Rauti per il controllo del partito, si diceva d’accordo con lui. Nei libri di storia come li vorrebbe la destra di Meloni, Rauti è un pacioso intellettuale, Almirante è un padre della patria. In quei libri di storia il sottosegretario Galeazzo Bignami vestito da nazista a Carnevale non è nel capitolo sul nazismo, al limite è nel capitolo sul Carnevale.