La Stampa, 5 agosto 2023
Il Niger e la delusione per le promesse infrante
In fondo a tutto c’è la questione della delusione. Un buon pubblicitario vi spiega che non bisogna mai gonfiare a dismisura le qualità reali di un prodotto o di un servizio, perché, promettendo, aumenta in proporzione il rischio di deludere l’acquirente. E deludere vuol dire ridurre la possibilità che costui resti fedele a una certa azienda. Il vantaggio delle religioni e di coloro che vendono dio, come fanno i jihadisti, è che non consentono una verifica delle promesse fatte al fedele “cliente’’ fino alla morte. E anche dopo, in fondo. Le promesse dei politici, dei governi, dei sistemi economici invece falliscono sotto i nostri occhi sempre più delusi.
È il momento di dirlo, dopo che al centro dell’Africa, quella saheliana, si è aperto un baratro di ribelli che sembra risucchiare sempre più paesi, Mali Burkina Niger Centrafrica e chissà quanti altri. Dove si radunano folle che ci stramaledicono: ovvero rinnegano il migliore dei mondi possibili o, ad esser più cauti, quello che ha meno difetti. Noi occidentali qui siamo vittime proprio di questa “dissonanza cognitiva’’ fra ciò che raccontiamo con notevole faccia tosta agli africani e la resa effettiva del nostro “prodotto” ovvero la democrazia del Mercato.
Nei giorni del golpe nigerino, da questa parte del mondo, i fatti che si stanno svolgendo a Niamey e altrove vengono letti come una primitiva e ottusa rivolta contro la Storia ovvero la democrazia di cui siamo il guardiano purissimo. E sarebbero disposti a barattarla, i reprobi, con l’autocrazia, la tirannide. La prova? inneggiano non ai presidenti incoronati dalla unzione purificatrice del voto ma a colonnelli che adorano Putin e i suoi metodi. Che affermazione! La retorica anche quando è memorabile resta sempre retorica. E malgrado tutte le deprecazioni muscolari di Macron, Biden e soci il tempo in Africa continua ad andare avanti. Credere il contrario vuol dire soccombere a illusioni oscurantiste, verrebbe da dire post coloniali.
E già, questo è il punto. Si muove, confusamente ma con energia, nel continente un nuovo anti colonialismo che non possiamo per ragioni di immagine adottare. Anche perché non lo controlliamo (ancora). Per ora assomiglia a una scossa epilettica, può portare alla guarigione o a una malattia ancora più grave. Per questo è rischioso negarne l’esistenza. È ben diverso da quello degli anni sessanta e settanta del secolo scorso, non si nutre di ideologia, non produce leader carismatici, libri o manifesti. Che risultava affascinante anche a una parte dell’Occidente, perché il marxismo africanizzato era un prodotto della nostra cultura. In fondo era esso stesso una esportazione colonialista.
Purtroppo le avanguardie di quello nuovo sono i militari. Già i golpisti. Nell’età vittoriana il nemico erano i poteri coloniali con il casco di sughero e gli shorts, i prati pettinati dei quartieri europei e le Compagnie per lo sfruttamento, quelle contro cui si scagliava con grande scandalo un viaggio di Gide dedicato a Conrad.
Tutto ciò è finito, in teoria, nel 1960. In pieno golpe il Niger ha ricordato l’anniversario della indipendenza: 3 agosto 1960. Vengon le vertigini a far scivolare nella memoria tutto ciò che è accaduto nella Storia di questi sessanta anni. Ora proviamo a pensare come un nigerino che ha festeggiato tra sanzioni, minacce di guerra e la abituale fame. Come è cambiata la sua condizione di africano libero? Il Paese ha una bandiera, un palazzo del parlamento, persino la guardia nazionale. C’è l’esercito con tamburi e bandiere ma i soldati francesi in basi e caserme sono più numerosi dei tempi in cui la “lotta al terrorismo” era affidata a tiragliatori senegalesi e a indigeni reparti sahariani.
Il suo redditto di uomo libero del ventunesimo secolo è uno dei più bassi del mondo, più o meno come all’epoca delle colonie. Ma allora il benessere del suddito non era soggetto di statistica e di Pil. Sa che ci sono nel sottosuolo ricchezze che dovrebbero appartenergli, uranio oro, ma nulla arriva nelle sue tasche. E forse è un guaio in più perché l’Occidente riserva meno attenzione ai Paesi cui fa difetto la vecchia giustificazione della rapina colonialista cioè le ricchezze minerarie.
Che le società che sfruttano siano francesi cinesi russe o canadesi non è un dettaglio che sposta il suo rassegnato giudizio. Deve ammettere che l’Europa ha lasciato in eredità la nazione e che alla fine nigerini e africani hanno preferito questa sistemazione alle tradizioni tribali. Poi sale su un autobus, ore e ore di viaggio su una striscia di asfalto che sembra malata di lebbra, con accanto africani più disperati di lui che fuggono verso nord e si accorge che il suo Paese è fatto a strisce, strisce di colore diverso: prima il fiume Niger dove vivono i neri, poi la brousse e la sabbia percorsa dai tuareg, poi il nulla. E quelle strisce le hanno disegnate i colonizzatori quando hanno graziosamente concesso l’indipendenza intrecciando, mescolando razze natura costumi fedi perché erano loro che conoscevano la formula di quell’incantesimo. E dentro c’era l’odio tra nordista e sudista, le rivolte dei tuareg, l’invasione jihadista. Che sia quella la pestifera eredità coloniale, più del franco Cfa e delle repubbliche molto presidenziali?
Sì, il nuovo anti colonialismo è molto più primitivo di quello di Sékou Tourè, Nkrumah e Samora Machel. Gli bastano le immagini: da un lato i grandi alberghi e le banche con le facciate alla Potentik, dall’altro il vuoto della savana, i villaggi e le periferie miserabili le malattie in agguato, la miseria. Può produrre forse solo le spicce scorciatoie dei militari.
Ma se questo avviene è colpa nostra: abbiamo accuratamente coltivato in questi Paesi società deboli e la inconsistenza di élite largamente compromesse, senza un legame organico tra loro e le masse, pigre e talora vili al momento di scendere in lotta. Queste democrazie malate, avvilite, con il verme di presidentissimi e dittatori che sono all’origine di ritardi tragici servivano ai nostri interessi. Chi può fare la rivoluzione in Africa? Non certo il terzo stato formato da borghesie compradore che vivacchiano facendo intermediazione, impiegate in società fantoccio che fanno sparire milioni di dollari delle materie prime con l’expertise occidentale e la consulenza delle nostre imprese e dei nostri gabinetti di avvocati. Di queste cleptocrazie la Nigeria (che impone sanzioni al Niger «per restaurare la democrazia», una indecenza!) e l’Angola sono esempi perfetti. Biden vuole cancellare «gli avamposti della tirannia» ma poi riceve alla Casa Bianca qualsiasi dittatore che abbia qualche barile di qualcosa di redditizio da offrire. Cosa resta? I militari e il lumpenproletariat, materia sommamente infiammabile.