Corriere della Sera, 4 agosto 2023
Intrvista a Jerry Calà
Che aveva di speciale il vicolo Miracoli?
«Da un lato c’era l’agenzia delle entrate, dall’altro un bordello: uscivi comunque in mutande. I nostri ci volevano ingegneri o dottori. Così, in una fredda mattina di gennaio del 1971, io, Franco (Oppini), Umberto (Smaila) e Nini (Salerno) scappammo di casa. E sul pulmino per Roma passammo ore a scegliere il nome del gruppo. Vinse quello».
Arrivò a Verona a 12 anni.
«A Milano abitavo in zona Loreto, quartiere tosto, frequentavo un oratorio dove c’era tutto meno che gente che pregava. Mi ritrovai in Happy Days. Un mondo ovattato, provincia anni ‘60: grandi compagnie, feste, musica. Primo bacio a Castel San Pietro. Mi ero preparato sui film. Andò bene, ero portato».
Comprava le auto dei Gatti: catorci sempre in panne.
«Erano i concessionari che cercavano me, un vero pollo. Non mi accontentavo dell’utilitaria, volevo il macchinone per rimorchiare. Presi una Citroen DS Pallas azzurra, detta “ferro da stiro”, con le sospensioni idropneumatiche che, quando montavi, la sollevavano da terra. Per fare il figo, il giorno dopo passai a prendere una ragazza che mi piaceva. Salì, misi in moto. Un sussulto. Poi il cofano si afflosciò sul selciato e da sotto cominciò a uscire un fiume d’olio nero».
Il boom a «Non Stop».
«Con Carlo Verdone diventammo amici. Assisteva alle nostre prove in camerino. Poi ci faceva sentire il suo monologo. Già pratico di tormentoni, gli consigliai: “Un sacco bello funziona, ripetilo più spesso, fidati”. Poi ci ha superato tutti. Eravamo squattrinati, i pochi guadagni li spendevamo la sera in trattoria».
Tutti compagnoni?
«Qualcuno mangiava in camera per non spendere, ci sta. Chi? Troisi e i ragazzi della Smorfia, come I Giancattivi».
Prooova.
«In tv c’era quello spot con un tizio in bici che invitava a provare la freschezza della primavera in Scandinavia. Lo imitai. Funzionò».
«I Fichissimi» con Diego Abatantuono, il vostro ex tecnico delle luci al Derby.
«Costò 350 milioni, incassò 9 miliardi, a me non regalarono manco uno Swatch».
Bud Spencer quasi le ordinò di lasciare i Gatti.
«Giravamo Bomber. La sera raggiungevo gli altri per lo spettacolo e tornavo in albergo all’alba. Lo trovai che mi aspettava sul divano della hall alle 4 del mattino. Agitò un ditone minaccioso. “Non puoi continuare così, la mattina sei rintronato. Devi scegliere”. Fu una decisione difficilissima».
Smaila ha detto: «Per me fu una coltellata».
«Umberto è sempre stato un po’ tragico. Fu quello che se la prese di più. Franco e Nini dopo qualche mese mi avevano perdonato, lui tenne duro. Poi però ci siamo riappacificati. E ha scritto tante colonne sonore dei miei film».
Per «Sapore di Mare» prese certi ceffoni da Virna Lisi.
«Prima di girare la scena, Virna si scusò: “Mi spiace, ma io gli schiaffi finti non li so dare”. “Si figuri, nessun problema”. Che sberla. Era buona la prima, ma Carlo Vanzina ce la fece ripetere otto volte».
Baciare Marina Suma fu un altro bel problema.
«Nel cast c’era Angelo Cannavacciuolo, il fidanzato. Gelosissimo, ci controllava. Chiedevo al mio amico Mao di portarlo via con una scusa».
Nella scena finale, al suo fianco, un’esordiente Alba Parietti. Ha raccontato che fu lei ad abbordarla quando, tutta leopardata, passava davanti alla Rai di Torino.
«Alba non si tiene un cecio in bocca! Non mi ricordo se era leopardata, però sì, le ho chiesto il numero, avevo vent’anni, eh. Tempo dopo, in città per uno show dei Gatti, la chiamai. “Porta un’amica”. A cena, io ero seduto vicino ad Alba, Oppini all’altra ragazza. Ma loro due continuavamo a parlarsi, fulminati, ignorandoci. Franco urlò: “Cambio!”. E incrociammo posti e coppie. Uno smacco? No, con Alba non eravamo compatibili. E poi mi piaceva l’amica».
«Vacanze di Natale».
«Una banda di matti, padroni di Cortina. La sera si faceva baldoria. Una notte mi addormentai in baita, ciucco, dopo aver bevuto la “coppa dell’amicizia”, mix di grappe. Mi dimenticarono e rimasi lì. L’indomani venne a prendermi per le orecchie un furibondo Aurelio De Laurentiis».
A Las Vegas con De Sica per «Vacanze in America».
«La produzione ci aveva prenotato una normale stanza al Caesars Palace. Ma al check in l’impiegato riconobbe il cognome di Christian. “Parente? Il figlio?”E ci assegnò una favolosa suite con piscina».
Che film, quei film.
«Tengono il tempo, diventano cult. Erano e sono tanta roba, i Vanzina».
E sempre a Las Vegas si sposò con Mara Venier.
«Scegliemmo una cappella a caso, non avevamo i testimoni, prendemmo due persone al volo dal casinò, una ballerina e un croupier, festeggiammo con una pizza a forma di torta o una torta a forma di pizza, non ricordo».
Un amore travolgente.
«Diventato una grande amicizia. La nostra canzone è: “Gente come noi, che non sta più insieme, ma che come noi, ancora si vuol bene”».
Lei però «era molto birichino», parole di Mara, e pure al party nuziale...la sorprese in bagno con un’altra.
«Ma noooo».
Racconti la sua versione.
«Organizzammo un party per gli amici al Chucheba di Castiglioncello. Mentre Renato Zero cantava, io parlavo fitto fitto con una tipa. Mara, fumantina e gelosa, mi rincorse per tutto il locale. Renato era entusiasta: “Ahò, quanto me so’ divertito”. Le donne sono più mature, io a 32 anni ero un cazzone, non all’altezza».
Viveva per il lavoro.
«La domenica sera telefonavo a tutti i cinema per sapere com’era andato il mio film, ormai conoscevo le cassiere. Se gli incassi erano così così, cambiavo umore, diventavo insopportabile. E questo era motivo di litigio con Mara».
Nel 1994 la sua auto finì nell’Adige, ma lei si salvò.
«E ho resettato i valori. Anche l’infarto (a marzo, sul set del film “Chi ha rapito Jerry Calà?”) è stata una botta. Cose così ti ricordano che è importante la vita, non il resto. E ti ci attacchi ancora di più».
E pure i dottori...
«Mentre mi mettevano gli stent, mi hanno chiesto di dire: “Libidine, doppia libidine, libidine coi fiocchi”».
E lei?
«Li ho accontentati. Non mi scoccia, al pubblico è giusto dare sempre ciò che vuole».