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 2023  agosto 02 Mercoledì calendario

Intervista a Romano Montroni, il libraio per caso

PUBBLICATA IN QUINTA SU ANTEPRIMA DEL 1° SETTEMBRE 2023

Classe 1939. «Ma potete anche scrivere ’43, ’50…, non mi offendo mica…». Romano Montroni ride. Di gusto. E la sua risata è contagiosa. Come è travolgente il suo entusiasmo. Nella sua carriera ha inaugurato novanta librerie («55 con Feltrinelli, le altre con il progetto Coop Adriatica», dice) e formato oltre ottocento librai. Fra i libri scritti da lui, Libraio per caso. Una vita tra lettori e autori (Marsilio, 2010) arriva in questi giorni alla sua terza edizione. «Quante copie ne ho vendute? Non lo so, spero tante…», solleva le spalle osservando soddisfatto gli scaffali ordinatissimi della Libreria Coop Zanichelli di piazza Galvani, da lui inaugurata nel 2012, nella sua Bologna. Rincorre i pensieri, i ricordi. Tantissimi.
Dove sta andando l’editoria?
«Gli editori hanno tutti una gran voglia di “buttare” fuori libri a rotazione, che per carità… è il loro mestiere, ma nessuno si occupa invece di fare crescere la lettura in questo Paese. Tutti pensano solo a fare eventi, ma i libri non si vendono con il marketing. Serve un’educazione alla lettura, alla cultura. Nei Paesi seri, come la Germania, per fare il libraio bisogna frequentare un master che dura due anni. Perché Giangiacomo Feltrinelli a un certo punto superò tutti gli altri?».
Perché seppe guardare anche al modello tedesco. Lei che ha lavorato in Feltrinelli per quarant’anni, ne saprà qualcosa…
«In tutte le librerie Feltrinelli aperte dal ‘63 in poi veniva fatta formazione per i dipendenti, per un periodo dai 3 ai 6 mesi. Giangiacomo mi diceva sempre di non scegliere librai già fatti, ma di preferire giovani da formare».
Nel 1963 a Bologna la Feltrinelli di piazza Ravegnana diventò per le librerie un simbolo di rinnovamento.
«Diciamo pure di rivoluzione. Avevo 24 anni e mi misero a dirigerla. Giangiacomo è stato un genio, l’inventore della moderna libreria: scaffali ad altezza uomo e più larghi per tenere il libro di costa e il libro di piatto contemporaneamente. Se guardiamo con il senno di poi come evolsero le cose, è sotto gli occhi di tutti come piano piano si adeguarono gli altri alle sue scelte, alle sue intuizioni».
Come furono quegli inizi?
«Avventurosi. Dopo sei mesi di apertura, non entrava ancora nessuno».
Come non entrava nessuno?
«In quel periodo in città c’erano Zanichelli, Cappelli, Parolini, Rizzoli, Minerva, Galleri…».
La svolta, come arrivò?
«Giangiacomo mi disse: “Facciamo un po’ di promozione”. Mandammo libri a un centinaio di intellettuali di Bologna, comunicando loro che avevamo aperto».
Come andò?
«Funzionò. Aggiungemmo a quel lancio poi attività che trasformarono via via la libreria in un centro culturale».
Ma in quanti eravate allora?
«In quattro: io, un commesso, una cassiera e un fattorino. Cominciammo a stare aperti anche alla sera, anche di domenica, senza fare l’intervallo, senza fare la mezza giornata di chiusura».
Come si suol dire, lavoravate...
«I vigili urbani venivano tutti i giorni, ci facevano ben tre multe a settimana».
E chi le pagava?
«Giangiacomo a un certo punto le raccolse tutte, le mise in mano a due avvocati bravi che ce le fecero cancellare. Da allora in poi, in tutta Italia le librerie poterono stare aperte molto più a lungo».
Un brutto ricordo in quella Feltrinelli?
«Nel ’77 ci tenevano sotto controllo i servizi segreti: sospettavano che la libreria fosse un covo degli autonomi. Avevano pure piazzato una telecamera sulla Torre degli Asinelli di fronte a noi, per monitorare la situazione. Ora rido, ma allora…».
Cosa si leggeva in quel periodo?
«La nostra libreria era orientata verso i lettori forti. Anche oggi in Italia, terz’ultimo Paese in Europa per lettori, ce ne sono comunque 5 milioni di quelli forti».
Italia terz’ultima, ma con quale percentuale di lettori?
«Con il 40%. Germania, Inghilterra e Francia sono a oltre il 70%. Da noi, triste dirlo, il 38% delle famiglie non possiede nemmeno un libro. C’è un analfabetismo di ritorno che non si può immaginare».
Quando era bambino, a casa si leggeva?
«Macché. Smisi le scuole dopo le medie – mi diplomai più tardi alle serali – e andai a fare il garzone in una libreria del centro, dove mi regalarono il mio primo libro, I ragazzi della via Pal di Ferenc Molnár. Quando lo portai a casa, mia madre mi guardò e mi chiese: “Cos’è sta roba?”».
Prima regola per aprire una libreria?
«O possiedi le caratteristiche per essere attrattivo per i lettori forti, o meglio che lasci perdere. La gente che compra libri, vuole delle competenze. Le librerie indipendenti sono quelle che funzionano meglio, perché sono sul territorio, gestite da giovani bravi e appassionati. Mica come certi commessi impreparati che si incontrano nelle librerie delle grandi catene».
Alcuni dicono di essere sottopagati.
«Eh, no! (batte il pugno sul tavolo, ndr). Anche io da giovane ero sottopagato, ma mi dicevano che lavoravo bene. Tutti i ragazzi che lavoravano con me pigliavano gli stessi stipendi degli altri. Non credo che il soldo faccia migliorare la qualità».
Nel 2006 è uscito il suo «Vendere l’anima. Il mestiere del libraio» (Laterza), che contiene i corsi che ha tenuto sulla formazione. Con prefazione di Umberto Eco.
«Fu Tomás Maldonado a dirmi che dovevo assolutamente scriverlo. Che gran personaggio che è stato Tomás, geniale, sempre elegantissimo, immancabile alle feste che faceva Inge (Feltrinelli, ndr) nel loro castello di Villadeati, in Piemonte».
Le cito l’attacco della prefazione di Eco: «Leggere Romano Montroni che parla del mestiere del libraio è un poco come leggere Dante che spiega come scrivere un poema in tre cantiche»...
«Un giorno Umberto venne in libreria e mi disse: “Romano vieni con me dieci minuti a fare due chiacchiere con i miei studenti”. Io risposi “Ma no dai…” e lui con una voce fermissima: “Romano, andiamo”. Andai. Pensavo a un’aula con una ventina di studenti. Erano t-r-e-c-en-t-o».
Delle feste a Villadeati, che ricordi ha?
«Giangiacomo mi ci portò la prima volta che avevo forse 25 anni. Un sogno. Ci ho visto passare Nadine Gordimer, Doris Lessing, Jack Kerouac, Günter Grass, Alberto Arbasino, Antonio Tabucchi...».
Era molto giovane allora, cosa la colpiva di quei personaggi?
«La loro semplicità: nessuno si dava arie. Erano tutti alla mano, cordiali. Quelli dei Feltrinelli non erano ricevimenti formali, ma che eleganza che c’era... Anche quelli in jeans, come Kerouac, avevano uno stile particolare, una loro ricercatezza che li rendeva speciali, diversi. Günter Grass mandò suo figlio a Bologna a lavorare con me in piazza Ravegnana per un periodo: era un bravissimo ragazzo, ma anche se non lo fosse stato, non mi sarei mai azzardato a fargli una delle mie proverbiali lavate di testa… Poi Inge alle feste mi presentava a tutti come il direttore delle Librerie Feltrinelli: ero orgogliosissimo».
Che rapporto ha avuto con la signora Feltrinelli?
«Inge era magica. Dopo la scomparsa di Giangiacomo, mi convocò a una cena e mi disse: “Abbiamo deciso che la macchina di Giangiacomo la devi tenere tu”. Era una Citroën Squalo, una macchina che adoravo. E Inge lo sapeva. Mi portò anche nella loro tenuta austriaca in Carinzia, dove Carlo Feltrinelli mi fece uno scherzo che non dimenticherò mai».
Perché? Ce lo vuole raccontare?
«Mi chiuse dentro la sauna caldissima, osservando da fuori la mia reazione. Vedevo il suo occhio che mi scrutava attraverso lo spioncino della porta. Quell’occhio, in quel momento, in quella situazione, mi spaventò».
Come finì?
«Mi aprì la porta e sorridendo mi disse “scherzavo dai”, ma io ero furibondo…».
C’è una grande foto di Roberto Calasso appesa alle sue spalle.
«Quando cominciai questo lavoro, c’erano Valentino Bompiani, Alberto Mondadori, Angelo Rizzoli, Giangiacomo Feltrinelli, Giulio Einaudi – che amava Bologna al punto di voler provare a trasferire la sua casa editrice proprio qui, sotto le Due Torri – e infine Roberto Calasso, la cui perdita ha chiuso un ciclo letterario».
Cosa la legava a lui?
«Tante cose... Fu lui, fra l’altro, ad inaugurare questa libreria. Che può vantare anche un primato».
Quale?
«La Coop Zanichelli è la libreria che vende di più i libri di Adelphi».
Ma la sua casa editrice del cuore qual è?
«L’Italia vanta tante case editrici, molte delle quali prestigiosissime. Da lettore, ovvio, ne preferisco alcune, tra cui Adelphi, ma comunque la qualità della produzione editoriale è davvero eccezionale».