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 2023  agosto 03 Giovedì calendario

Intervista a Bobby Solo

Bobby Solo ha 78 anni, sessanta dei quali passati nel mondo della canzone, dall’esordio nel 1963 con il singolo Ora che sei già una donna. Il tempo non ha inciso granché sulla sua voce né sulla passione per la musica, per il rock’n’roll che da sempre (pop permettendo) è stata la sua stella polare. Elvis era il suo mito, per molti versi lo è ancora, è proprio con l’approccio del rock’n’roll e il “sentimento” di Elvis che ha deciso di fare un album diverso dai precedenti: si intitola Get back,Bobby canta i Beatles con il suo stile, la profondità “alla Elvis” e uno spirito divertito: «Ho fatto tipo Rick Rubin con Johnny Cash, pochi strumenti, passione e voglia di far diventare mie delle canzoni che ho sempre amato». Il progetto è nato dalla collaborazione con Francesco Arpino, musicista, produttore, amico e collaboratore di Sean Lennon, che ha coinvolto Bobby e in tre giorni ha registrato tutto in studio «comprese chitarre e pianoforti come si faceva una volta» sottolinea Arpino, «con Bobby che cantava come se quei pezzi fossero sempre stati suoi». Ne vengono fuori 11 brani dei Beatles più una versione esclusiva e inedita diDay after day, un pezzo scritto insieme a Sean Ono Lennon, in un disco elegante che rende giustizia alla storia e alla personalità di Bobby Solo. «Chissà se renderà giustiziaanche ai miei errori», dice.
Perché?
«Ne ho fatti parecchi, soprattutto quando ero giovane e fesso.
Partiamo dai Beatles: era il 1965, avevo avuto un grande successo internazionale dopo Una lacrima sul viso,un bel giorno chiamò Dick James, l’editore dei Fab Four, che mi voleva vedere a Londra, mi aveva ascoltato e aveva delle proposte. Io, vent’anni, fessacchiotto, Elvis l’unico mito. James mi riceve a Londra, sembrava Churchill, tutto rosso. Mi dice “ho una grande canzone di Paul McCartney e vorrei che la cantasse lei”. Io ero magrolino, con il ciuffo, i pantaloni alla caviglia col calzino bianco, gli dico “grazie Dick, ma è una canzone francese, io faccio rock’n’roll. Era Michelle».
Incredibile.
«Lo deve aver pensato anche lui. Ci rimase un po’ male. Ricordo l’ufficio a New Oxford Street, la lacca che mise sul giradischi. Fu un grandissimo errore. Non l’unico».
E quale altro?
«Nel 1977: “Pronto, parlo con Bobby Solo? Sono Giorgio Moroder, sono a Trento, in studio, e ho dei pezzi per te”. Cosa ho risposto? “No, grazie, io i pezzi me li scrivo da solo”. Potrei andare avanti...».
Ovvero?
«A un certo punto ho avuto un clamoroso successo in Giappone, tre milioni e mezzo di dischi, un tour con quaranta concerti sold out. Mi contattano dei funzionari di Stato e mi dicono che l’imperatore Hirohito mi voleva invitare a cena. Io ringrazioma non accetto, era l’unica serata libera che avevo. Per sette anni non ho potuto più mettere piede in Giappone».
Ricorda anche cose belle?
«Certo, il primo Sanremo, le vittorie al Festival, i giorni passati con gli Yardbirds a Londra a suonare e vedere Jeff Beck fare meraviglie con la sua Esquire, che aveva grattato con la carta smerigliata per farlavibrare meglio. Le serate con Brian Auger e Rod Stewart. E quella volta, quando a San Francisco incontrai David Crosby. Gli anni 60 erano così».
Un periodo fantastico
«Anni meravigliosi di grandi successi. Ho avuto i miei alti e i miei bassi. Ora sono nei medi, quindi felice del periodo in cui mi trovo e della musica che faccio. Ho iniziatotardi ad apprezzare i Beatles ma trovo le loro canzoni stupende. A Francesco Arpino qualche anno fa ho detto: “La mia voce si è fatta più profonda, alla Johnny Cash, mi piacerebbe fare i Beatles con questa voce e il mio stile”. Mi ha accontentato ed è nato questo disco, senza una prospettiva: solo per amore delle canzoni e la voglia di cantarle».
È un repertorio nel quale si sente a suo agio?
«Per forza, ci sono armonia e melodia. Non voglio criticare nessuno ma molte delle canzoni di oggi non hanno capo né coda.
Queste ti portano in un mondo bellissimo, pensi aMichelle o
Yesterday. La mia preferita èAcross the universe, quando la canto mi sento su un cavallo da corsa. È la semplicità che affascina, come nelle nostreIo che non vivo oVolare. Alla fine le note sono sette, le combinazioni sono tante ma sono quelle, le usiamo da cent’anni, prima o poi si assomigliano quindi oggi è più difficile scrivere cose nuove.
Meglio, allora, cantare canzoni come queste e farsi emozionare».
Ha nostalgia del passato?
«No, ma erano bei tempi. Penso che la musica classica sia immortalata nell’eternità, mentre il pop è la colonna sonora della contemporaneità. Nei 60 c’era lavoro, gli italiani producevano i frigoriferi e i televisori, eravamo noi i cinesi, avevamo il benessere, non c’era bisogno di fare i mutui, affittavi la tua casa. D’inverno ballavi i lenti avvinghiato alle ragazze, d’estate prendevi la tintarella di luna. Poi sono arrivati gli anni 70, la crisi, il terrorismo, la musica dei cantautori sociali, poi gli 80, le discoteche, le trasgressioni e via così. Oggi si parla di intelligenza artificiale e la musica è nei computer. Prima non c’era il clic per tenere il tempo, ci si guardava e c’era una pulsazione come il cuore. La musica è lo specchio dei tempi, i giovani apprezzano nuovi cibi come il sushi e hanno diritto ad avere nuove sensazioni e nuova musica. A me piacciono pasta e fagioli e le tagliatelle».