La Stampa, 3 agosto 2023
In difesa dell’autotune
Una volta Marracash scrisse: «L’autotune è come la cocaina, ogni anno pensi “questa roba passerà”, ma poi tira sempre». E, in fondo, anche le critiche a questo software, che permette di distorcere la voce e offre anche un aiutino per cantare meglio, non passano mai. L’ultima stoccata è di Samuele Bersani, che ha puntato il dito contro Sfera Ebbasta, colpevole – senza autotune – di aver stonato.
Lo strumento divide da sempre. C’è chi lo ama e chi lo odia, chi lo demonizza e chi ne abusa. Certo, corregge tutti i difetti di intonazione, ma pensare che sia l’unico motivo per cui viene usato è riduttivo. Di questi tempi, comunque, è facile aggrapparsi all’idea che i rapper lo sfruttino perché incapaci di azzeccare una nota (che a volte è anche vero), ma dietro a questo effetto c’è molto di più.
In principio c’erano il vocoder e il talk box, poi arrivò l’autotune, che al contrario dei suoi “antenati” è stato visto da subito come una sorta di mostro. Creato dall’ingegnere elettronico – ed ex musicista – Andy Hildebrand, è stato sviluppato dalla Antares Audio Technologies nel 1997, e con il tempo è diventato – come dice Gemitaiz – «una cosa prettamente hip hop».
In realtà la prima canzone che sperimenta questo rivoluzionario effetto risale al 1998 e con il rap non c’entra nulla: è stata infatti Cher nella sua Believe a raggiungere un successo mondiale con quel ritornello robotico in cui ripeteva «do you believe in life after love?».
Poco dopo la rivoluzione sbarca nell’hip hop. T-Pain, tra i primi ad innamorarsi dei giochi di distorsione della voce, per parecchio si domanda se con l’autotune non «ha mandato a puttane la musica». Quando – stufo delle polemiche – decide di cantare senza, la gente si stupisce: «Pensavano davvero che il mio successo fosse basato su un software, bisogna scrivere le canzoni, trovare un buon ritmo, e tutti si concentrano su un plugin». Nel 2008 Kanye West non si fa problemi a sperimentarlo in 808s & Heartbreal. Da lì in poi lo provano praticamente tutti. Future, Lil Wayne, Drake, Travis Scott, sono solo alcuni di quelli che hanno osato di più esplorando molteplici universi sonori. Perché l’obiettivo di chi non può farne a meno è trasportare chi ascolta in uno scenario unico lunare, alterato.
In Italia da Sfera Ebbasta in avanti, nella maggior parte delle canzoni se ne sente traccia. Basta ascoltare alcune hit di Ghali, Lazza, Capo Plaza, Anna, Achille Lauro. Il pericolo, però, non è passare da un effetto all’altro, ma omologarsi. Allora i brani suonano tutti uguali, così come le voci, ripetitive e senza anima. L’autotune, in molti casi, è uno strumento artistico vero e proprio, come nella musica di thasup. Ciò che conta, anche quando si ricorre alla tecnologia, è la personalità. E alla fine se non sei originale, se non sei innovativo, se non hai talento, non sarai mai un artista, con o senza autotune. Lazza, per dire, a Sanremo ha dimostrato con Cenere di non aver certo bisogno del software: «Mi dà fastidio quando qualcuno dice roba tipo “eh ma lui non sa cantare, usa l’autotune”. È uno strumento che può piacere o no, non sta a me giudicare, ma io so cantare anche senza».
In un’intervista di qualche tempo fa, in seguito a una litigata con niente di meno che Laura Pausini, anche Blanco si è speso in difesa di questo strumento: «Usiamo l’autotune come sfumatura, come un colore più moderno. Penso che nella trap, dove si usa molto, a volte gli artisti hanno più cose da dire rispetto a chi non lo usa. Magari le cose che canto io con l’autotune possono trasmettere più emozioni di alcuni colleghi che non lo usano».
A difenderlo non sono solo quelli della nuova generazione, ma anche quelli della vecchia guardia. Frankie hi-nrg, dopo il polverone degli ultimi giorni, sottolinea che «se è la forma a rendere bravo un artista allora siamo fottuti». Criticare la forma, in effetti, è rischioso. «Fontana tagliava le tele. Burri squagliava plastiche con un cannello. Picasso metteva due occhi dallo stesso lato della faccia. Se si vuole dire che qualcuno ha testi risibili lo si dica, altrimenti anche chi usa il leggio sul palco (come me) è un povero minus habens», dice il rapper di Quelli che benpensano. Come ripete spesso Carl Brave, «l’autotune non è il male assoluto, anzi è fresco».
Negli ultimi anni, con i progressi tecnologici e i prezzi in calo, è diventano di uso comune, anche nelle camerette di tanti ragazzetti con la passione per la musica e il sogno di diventare famosi, magari proprio come il rapper di Cinisello.
Se guardiamo al mondo della discografia, invece, l’hanno testato tutti, perfino Paul McCartney. Quando uscì Get Enough, infatti, il baronetto del rock disse: «Se lo avessimo avuto ai tempi dei Beatles, lo avremmo usato tantissimo. Credo che se John Lennon ne avesse avuto l’opportunità ci si sarebbe fissato. Non tanto per il fatto di aggiustare la voce, quanto di giocarci». Il punto è: la magia la fa chi lo usa, non l’autotune. —