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 2023  agosto 04 Venerdì calendario

Storia, ti avessi studiato prima


Immagino che ogni studioso ritenga che ciò di cui si occupa lui o lei sia il tema più importante, o quantomeno uno dei più rilevanti: altrimenti studierebbe altro. Nel dibattito riaccesosi con l’articolo di Gianni Oliva il rischio è che si susseguano accorati interventi a difesa di periodi storici o temi specifici, e che si perda così lo sguardo di insieme. Non intendo dunque produrre una personale lista, né dire alla comunità dei docenti di storia cosa dovrebbe approfondire e in che tempi. La storia è una disciplina che si insegna in primis perché chi la studia impari a pensare storicamente, a sapersi collocare – come essere umano nel tempo – in un flusso di processi ed eventi locali e globali che porta fin qui. È una disciplina che ci insegna a comprendere non tanto le tanto evocate radici – metafora assai insidiosa –, quanto noi stessi.
Mi sia concesso un cenno alla mia esperienza, in quanto coautore di un manuale per il triennio della scuola secondaria superiore, Trame del tempo (Laterza 2022, con Caterina Ciccopiedi, Valentina Colombi, Marco Meotto), nel quale si è scelto di rompere la tradizione bicentenaria della manualistica, proponendo una narrazione che integra fonti, storiografia e immagini all’interno del testo, senza apparati a frammentare il discorso. L’obiettivo dichiarato è di raccontare la storia in maniera avvincente, per mostrare l’intreccio che lega indissolubilmente l’alto e il basso, per usare categorie consumate. L’ossatura politico-diplomatica, spesso definita “Storia con la S maiuscola”, è il palcoscenico sul quale si muovono donne e uomini come noi. Io ho firmato gran parte dell’ultimo volume, Guerra e pace. Dal Novecento a oggi, che contiene il nucleo più problematico della “vexata quaestio": il peso che può avere nella formazione di uno studente o di una studentessa il periodo storico immediatamente alle sue spalle.
Le indicazioni ministeriali non escludono affatto l’ultimo mezzo secolo dai cosiddetti programmi, semmai una consolidata consuetudine vuole che sovente si arrivi all’ultimo anno in ritardo, sprofondati nell’Ottocento, e con l’avvicinarsi dell’esame di Stato l’obiettivo di dedicare integralmente l’ultimo anno al Novecento e al post-Novecento si rivela una chimera. Poi c’è la questione, sollevata anche da Oliva, degli ultimi decenni percepiti come politica e non storia. Chiedete però a una qualunque scolaresca se l’11 settembre 2001 è storia o cronaca, e scoprirete che non hanno esitazioni: è storia. Il mondo adulto ha la responsabilità di saper riempire con una narrazione documentata e verificabile – seppur provvisoria –, e con il necessario slancio civile, gli anni che altrimenti uno studente potrebbe non avere mai occasione di approfondire. Non è un dilemma di oggi. Nella sua Autobiografia di un picchiatore fascista (Einaudi 1976), Giulio Salierno, classe 1935, scrisse: «Vivevamo tutti come in un limbo. Dai dieci ai quattordici anni non seppi mai che ci fosse stata una cosa chiamata Resistenza. A scuola, la professoressa diceva soltanto che, dopo il 1943, c’era stata una guerra civile in Italia: da una parte i fascisti e dell’altra gli antifascisti. Quando qualcuno le chiedeva di spiegarsi meglio eludeva la domanda o rispondeva che dare un giudizio era impossibile perché si trattava di fatti troppo recenti. A me ogni tanto veniva un dubbio; chi aveva torto, chi ragione? Nessuno mi aiutava a risolverlo, soprattutto a scuola. Sapevo tutto su Garibaldi, e nulla su ciò che era successo dal momento in cui ero nato. L’insegnamento della storia si arrestava alla prima guerra mondiale».
Se i dubbi di Salierno, fascista pentito, sono poi stati sciolti, questa abitudine malsana ad abbandonare al caso la percezione della storia più recente va superata, considerato anche il suo montante uso politico che non risparmia peraltro periodi lontani; come la recente offensiva nazionalista, di derivazione fascista, con cui l’estrema destra cerca di riappropriarsi del Risorgimento. Una cittadinanza che conosce poco la storia – nel merito e nel metodo – è tendenzialmente più manipolabile: le si può persino far credere che le nazioni esistano in natura.
Il combinato disposto tra “fattore tempo” e timore delle polemiche politiche, cui si aggiunge la poca “utilità” della storia in vista dell’esame, fa sì che convenga “mollarla” tra gli anni ’50 e gli anni ’80 del Novecento, e non di rado accade. I modi per risolvere questa anomalia del sistema possono essere tanti: c’è persino chi già procede a ritroso, risalendo la corrente della storia. È tuttavia ben chiaro a molte e molti docenti: non è tanto il cosa si affronta quanto il come lo si fa. Perché se gli ultimi quarant’anni continuano a essere una giustapposizione di eventi recenti da mandare a memoria, anche per accelerare ed evitare guai, tanto vale saltarli. Invece è necessario mostrare come “fare storia” significhi da un lato narrare storie, e dall’altro ragionare sulla loro fondatezza, e sulle tracce che ci consentono di raccontarle. Anche sulla loro provvisorietà: le questioni interpretative aperte sono forse meno interessanti dei processi storici chiusi? La storia è documentazione, racconto e interpretazione, e questo non può non entusiasmare: il fatto che si tratti di un magma evenemenziale la cui narrazione non è sedimentata dev’essere uno stimolo, non un ostacolo; un cantiere metodologico aperto.
Certo, poi chi scrive sogna un mondo senza confini, ritiene che il punto più alto della storia italiana sia stata la Resistenza, e pensa che la conoscenza del passato possa salvarci dallo sprofondare nel baratro di nuovi nazionalismi e di nuove persecuzioni, ma sa anche che ci si può educare alla democrazia, all’umanità e alla solidarietà in molti modi, spesso sorprendenti: viene fatto in centinaia di scuole ogni giorno. La passione di chi la storia la insegna è contagiosa, ed è la scintilla che farà divampare la partecipazione delle cittadine e dei cittadini di domani.