La Stampa, 4 agosto 2023
Tasare gli infuencer
La vera rivoluzione in Italia sarebbe far pagare le tasse agli evasori, quelli grandi, quelli veri. In molti casi non sembrerebbe neanche difficile: chi studia il settore dice che basterebbe potenziare gli organici degli uffici tributari, dotarli dei mezzi tecnologici necessari, eliminare gli aspetti della legislazione che sembrano fatti apposta per favorire i disonesti. Ma di tanto in tanto si esplorano ipotesi differenti, per esempio si propone di far pagare le tasse a settori un po’ marginali dell’economia; adesso è la volta degli “influencer”, cioè le persone che vivono di attività “social” nel mondo Internet, da Kabu Lame a Chiara Ferragni a Fedez e da Gianluca Vacchi a Michele Morrone.
«Anche gli influencer devono pagare le tasse» ha detto ieri il ministro del Tesoro Giancarlo Giorgetti, e il concetto preso a sé è ineccepibile: là dove si produce reddito è giusto imporre tributi.
Giorgetti, che parlava in videocollegamento con la festa della Lega Romagna a Cervia, ha osservato che il sistema economico è molto cambiato negli ultimi decenni, «oggi si deve andare a cercare la base imponibile» anche setacciando attività che in passato non venivano neppure immaginate, come sono quelle che si svolgono in Internet. Il ministro dell’Economia e delle finanze ha riconosciuto che il problema dell’evasione fiscale in Italia è grosso, «secondo le stime si tratta di settanta-cento miliardi di euro», e ha messo nel mirino «i giganti del web», ma ha citato anche gli influencer.
In realtà non è chiaro quale fosse l’esatto significato delle dichiarazioni di Giorgetti, visto che l’attività economica degli influencer è regolamentata come ogni altra: hanno partita Iva, fatture, a volte intere imprese con dipendenti; può darsi che il ministro sospetti un’ampia evasione.
Per quanto riguarda i colossi multinazionali dell’universo “social”, si tratta invece di una questione macroscopica, ben nota nei suoi contorni e scandalosa: hanno un’attività globale, guadagnano enormemente in tanti Paesi diversi, pagano poche tasse in sedi fiscali di comodo, e per di più si sottraggono alla responsabilità civile e penale sui contenuti che veicolano, sostenendo di essere fornitori di una struttura neutrale, come se i social media fossero l’equivalente di linee telefoniche.
Giorgetti ha notato che anche i tentativi in corso a livello Ue di far pagare qualcosa in più a questi soggetti sono timidi.
Quanto agli influencer, se l’ipotesi è che lì si nascondano sacche di evasione sarà un po’ più facile metter loro il sale sulla coda rispetto ai colossi del web. E se il ministro dell’Economia dà questa indicazione agli uffici che da lui dipendono e alla Guardia di Finanza è verosimile che qualcosa succeda.
Con altra finalità, cioè non per allargare la base imponibile ma per dare una valutazione più realistica delle dimensioni del prodotto interno lordo, da qualche anno nel calcolo del Pil italiano viene inserito il giro d’affari dell’economia illegale, dallo spaccio di droga (per la strada, non il grande traffico internazionale) alla prostituzione. Periodicamente si dibatte anche dell’opportunità di regolarizzare e tassare le prostitute e i gigolò, che in molti casi si dicono pure favorevoli, in cambio di riconoscimento sociale. Gli inflencer di questo non hanno bisogno, ne hanno già tantissimo (fin troppo, secondo i detrattori). Sia chiaro, l’accostamento tra influencer e prostitute non intende essere offensivo, è solo la constatazione di una tendenza generale ad andare a cercare il reddito in qualunque ambito sociale. Ma gli influencer possono ben ribattere che loro le tasse già le pagano.