Avvenire, 2 agosto 2023
Biografia di Silvio D’Arzo
Dalla morte prematura di Silvio D’Arzo, avvenuta a 32 anni non ancora compiuti il 30 gennaio 1952, la sua fortuna ha avuto nel corso dei decenni un andamento per così dire carsico. Innanzitutto va detto che la fama dello scrittore di Reggio Emilia è stata per gran parte postuma, a partire dalla pubblicazione di Casa d’altri, nel 1952 su “Botteghe Oscure” e l’anno dopo in volume da Sansoni, definito da Eugenio Montale «un racconto perfetto». Se si escludono un paio di sillogi adolescenziali, che pertengono più alla fase dell’apprendistato che non alla carriera letteraria vera e propria, in vita D’Arzo aveva pubblicato in volume, all’inizio del 1943 da Vallecchi, soltanto il romanzo All’insegna del Buon Corsiero.
Post mortem, l’attenzione all’opera darziana sarà segnata da fasi alterne: punte di interesse da parte della critica e dell’editoria con diversa cadenza, a distanza di anni, in occasione dell’uscita di inediti, della ripubblicazione di testi già conosciuti o di particolari anniversari, alle quali sono seguiti momenti di oblio. Tuttavia va detto che dalla seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso si è registrato un vero e proprio revival, anche grazie al contributo di diversi narratori della generazione di coloro che esordirono in quel decennio, in primis Pier Vittorio Tondelli. Così, da una quarantina d’anni, si può dire che D’Arzo sia unanimemente considerato un “grande minore” nel canone della narrativa italiana novecentesca.
Oggi siamo in un frangente particolarmente propizio alla sua riscoperta e valorizzazione. Sono infatti disponibili diverse nuove edizioni delle sue opere, di cui vogliamo segnalare qui le più recenti. Il capolavoro di D’Arzo, il già citato Casa d’altri, esce da Garzanti con una postazione di Alberto Casadei (pagine 96, euro 5,90) e da Feltrinelli in un volume che comprende anche altri racconti con la prefazione di Laura Cerutti e la postfazione di Valeria Parrella (pagine 176, euro 10,00).
Sotto il velo di un’apparente immediatezza e semplicità, il testo cela un organismo narrativo strutturalmente complesso e assai sapientemente costruito. La storia è narrata in prima persona da uno dei due protagonisti, il parroco di Montelice, l’immaginario villaggio montano dove si svolgono le vicende. Il sacerdote vive stancamente il proprio ministero, senza più l’entusiasmo giovanile, finché interviene qualcosa di insolito: l’incontro con un’anziana donna mai vista prima, Zelinda, nella quale il prete intuisce una profonda infelicità e un’accorata richiesta d’aiuto.
Casa d’altri è un’opera molto particolare, che è stata letta in chiave sociale, esistenziale e religiosa. La distanza dai moduli narrativi del Neorealismo è particolarmente evidente: la prosa lirica e la forte connotazione spirituale del racconto esprimono con grande efficacia il senso tragico e provvisorio di un’esistenza vissuta da estranei, come appunto in una «casa d’altri».
Elliot manda invece in libreria un romanzo meno noto di D’Arzo: L’uomo che camminava per le strade
(postfazione di Arnaldo Colasanti, pagine 78, euro 9,50). “L’uomo che cammina per le strade” è il ventinovenne professor Carlo Stresa, supplente annuale di latino presso il regio liceo- ginnasio di una cittadina di provincia non meglio identificata (ma gravitante nell’orbita della più grande Bologna). Carlo alloggia, con i trenta libri che possiede, presso la pensione della signora Anita. Al professor Stresa non succede niente di particolare, se non gli incontri con le persone che si trova intorno e i pensieri e le riflessioni in cui intrattiene se stesso quando è solo. In tal senso il “camminare” del titolo non indica tanto un viaggio, con un punto di partenza e una meta da raggiungere, quanto piuttosto un vagabondare, un errare da flâneur per le strade della città. Quello di Carlo Stresa è però un vagabondare e un camminare, oltre che per le vie della città e fuori porta, anche dentro se stesso.
Il motivo unificante del romanzo è stato identificato dalla critica in una linea portante che può essere individuata nel motivo di una conciliazione tra l’individuo e l’umanità: anticipazione di un tema che sarà fondamentale nella produzione post-bellica di Silvio D’Arzo, quando l’autore si avvicinerà maggiormente a tematiche di tipo, seppur latamente, sociale.
C’è infine la produzione narrativa di D’Arzo per i ragazzi. La letteratura per l’infanzia non è concepita dallo scrittore emiliano (che vi si dedica a partire dal 1943) in termini restrittivi e ghettizzanti, ma al contrario come possibilità di parlare a tutti, adulti compresi, attraverso le sue storie per bambini. Alberto Sebastiani, oggi uno degli studiosi più accreditati dell’opera darziana, propone per Officina Libraria Le tribolazioni del povero Bobby (pagine 148, euro 16,00), versione provvisoria del romanzo Penny Wirton e sua madre, pubblicato postumo nel 1978 da Einaudi. È la storia di un ragazzo, di nome Bobby (nella redazione successiva diventerà Penny), figlio di una levatrice e di un padre, ormai defunto, che lui crede essere stato un grande eroe militare, mentre in realtà era un povero sellaio. Il fantasma del padre parla ogni sera con la moglie presso il cancello del cimitero. Lui vorrebbe che la moglie dicesse al figlio la verità, ma Penny la scopre per conto suo e, sentendosi ingannato, decide di fuggire. Molto di D’Arzo ci può dire quest’opera. La sostanza autobiografica è evidente: Bobby vive in povertà ed indigenza con la madre, senza la presenza di una figura paterna. D’Arzo era figlio di padre ignoto, e l’assenza del genitore aveva molto pesato molto sulla sua infanzia. Sebastiani ha scovato questa precedente stesura tra le carte darziane. Nell’offrirla ai lettori, invita a considerarla «a tutti gli effetti una prima redazione di Penny Wirton», rispetto al quale però il testo presenta episodi inediti e più ampie concessioni alla dimensione del fantastico.