Avvenire, 4 agosto 2023
Storia delle colonie estive
Fu per la prima volta nel secondo Ottocento, nell’àmbito della scienza positivista, che si cominciò a sostenere l’utilità della “elioterapia” (i bagni “di sole”, accompagnati a quelli “di mare”) per guarire tutta una serie di malattie. Nel 1869 il poeta e sacerdote vicentino Giacomo Zanella pubblica un’ode dal titolo Sugli ospizi marini pei fanciulli scrofolosi. La scrofola, un’infezione tubercolare che colpiva soprattutto bambini malnutriti, era una delle calamità che affliggevano il corpo malato di un’Italia da poco unita. Le prime visite di leva del neonato Stato unitario registrano una percentuale di riformati che oscilla tra il 22 e il 24%. Malattie polmonari, pellagra, gozzo, deficienza toracica e difetti fisici di varia natura restituiscono il quadro di una nazione non in buona salute, e dunque da rigenerare, a partire dai più piccoli.
Sarà però il fascismo, alcuni decenni più tardi, a sviluppare su larga scala questo obiettivo, facendone al tempo stesso un importante strumento di propaganda. Le colonie estive fasciste, nuova declinazione degli ospizi e dei sanatori del periodo precedente, cominciano a popolare la fisionomia delle località marine più rinomate, soprattutto al Nord e al Centro della Penisola. Stefano Pivato ha ricostruito la storia di queste istituzioni, dagli anni del regime fino alla loro crisi negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, in un saggio di notevole interesse storico e documentario: Andare per colonie estive (il Mulino, pagine 158, euro 13,00). «La colonia», spiega lo studioso, «diviene il prolungamento estivo della scuola invernale, anzi uno dei luoghi privilegiati dell’educazione nei quali vengono trasmessi ai giovani ospiti i cardini dell’ideologia fascista: dal culto del corpo alla valorizzazione dell’identità nazionale, dall’osservanza della liturgia del littorio ai riti del militarismo». Le colonie estive si diffondono nella prima metà del Novecento anche negli Stati Uniti e nel resto d’Europa, ma c’è una specificità tutta italiana: la monumentalità. Nella convinzione che attraverso una certa architettura sia possibile comunicare i princìpi dell’ideologia, le colonie del ventennio sono ospitate in edifici maestosi e imponenti (non in baracche di legno o in campeggi di tende, come avviene nel resto del mondo occidentale), appositamente costruiti seguendo i canoni dell’architettura razionalista e privilegiando l’effetto scenografico sulla funzionalità. Non a caso alcuni di quei fabbricati sono considerati oggi capolavori del razionalismo architettonico: la “Torre Balilla” a Marina di Massa inaugurata nel 1933, la colonia “Novarese” realizzata a Rimini nel 1934, quella dell’Agip a Cesenatico costruita tra il 1936 e il 1937, la colonia della Montecatini a Milano Marittima, con la sua torre avveniristica, inaugurata nel 1939 e molte altre. «Le colonie devono soprattutto stupire e lasciare l’impressione di un regime che si prende cura dei bambini. E questo grazie anche alla cassa di risonanza dei filmati Luce che annoverano questi complessi architettonici fra i soggetti più rappresentati di quegli anni».
La storia delle colonie ha avuto anche le sue tragedie. È il 16 luglio 1947 quando il naufragio di un barcone ad appena un centinaio di metri dalla riva di Albenga (Savona) provoca la morte di 43 bambini ospitati nella colonia estiva di Loano del Fondo di solidarietà nazionale, istituita a favore degli orfani dei reduci e dei partigiani. Grande è la commozione in tutto il Paese. Dino Buzzati, inviato del “Corriere della Sera”, scrive articol di forte impatto emotivo. I funerali dei poveri bambini verranno celebrati dall’arcivescovo di Milano, cardinale Alfredo Ildefonso Schuster, e Giovanni Testori scriverà nel 1950 un testo teatrale, Le Lombarde, mettendo in scena il dolore delle madri orbate dei figli.
Altri drammi, per fortuna molto più banali, segnano però l’esperienza della colonia per molti piccoli ospiti. Per tanti bambini quella non risultava esattamente la vacanza ideale. Pivato ha raccolto nel suo libro molte testimonianze in tal senso. Il soggiorno durava tipicamente un mese e i bambini più fortunati potevano ricevere una visita dei genitori soltanto dopo due settimane dall’arrivo. Il viaggio più allegro era quasi sempre quello di ritorno, perché all’andata prevalevano tristezza e nostalgia. Ciò non riguardava solo le colone fasciste, ma anche quelle che proseguirono dopo la guerra, ora gestite da enti cattolici o da grandi aziende per i figli dei loro dipendenti. Per Bruno, ospite della colonia “Aurora” di Igea Marina negli anni ’50, il ritorno a casa rappresenta la liberazione da un incubo: «Arrivato in stazione, dal finestrino abbassato vidi mia mamma sotto la pensilina, il treno non era ancora fermo che gli gridai che in colonia non ci tornavo mai più». Molti bambini in colonia non torneranno davvero più perché nel frattempo, con il boom industriale e le migliorate condizioni economiche di molte famiglie, mandare i figli in colonia per offrire loro qualche settimana di “aria buona” non sarà più necessario. Con gli anni ’60 le estati conosceranno gli esodi di massa di interi nuclei familiari verso le località balneari a cui ancora oggi, come mostrano le cronache di queste settimane, siamo abituati.