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 2023  luglio 20 Giovedì calendario

Biografia di Michael Connelly

Michael Connelly, nato a Philadelphia il 21 luglio 1956 (67 anni). Scrittore. Autore di 31 romanzi gialli e di un saggio. I suoi libri sono tradotti in quaranta lingue e hanno venduto 74 milioni di copie.
Vita «Michael Connelly avrebbe dovuto essere un costruttore di case, come il papà. Al college, in Florida, si mise a studiare ingegneria. Ma un pomeriggio andò a vedere Il lungo addio, il film di Robert Altman basato sull’omonimo libro di Raymond Chandler. Finito il film, Connelly tornò a casa e si mise a leggere tutti i libri di Chandler e il suo leggendario detective Philip Marlowe. Un’abbuffata che gli cambiò il destino: ne uscì determinato a voler fare lo scrittore. Di libri gialli. Lo presero a fare cronaca nera per dei piccoli giornali della Florida, dove raccontò anche il boom del mercato della cocaina nella Miami degli Anni 80. Un paio d’anni e venne assunto alla cronaca del Los Angeles Times. E una volta che arriva a Los Angeles, che fa Connelly? Va a vivere nello stesso appartamento dove Chandler aveva piazzato il suo Marlowe, e dove lo stesso Altman lo aveva filmato. Il giornalismo è stato un passaggio, ma molto importante. A partire dalla Memoria del topo, Connelly si è infatti messo a scrivere gialli spesso basati su fatti reali. Arrivano i primi premi e i suoi libri vengono tradotti in 39 lingue. Nascono i suoi memorabili e ricorrenti personaggi, tra i quali spicca Hieronymus «Harry» Bosch, detective di Los Angeles, un nome che vuole essere un omaggio all’omonimo pittore fiammingo. È un solitario Bosch, uno che non sa adattarsi a burocrazie e convenevoli. Ha sentimenti, ma li nasconde. E anche se il suo mestiere lo porta ad esplorare gli abissi del comportamento umano, lui sa sempre essere un osservatore freddo e acuto. Oltre a Bosch, protagonista di 19 libri tra i quali ritroviamo La bionda di cemento, Il ragno e L’ombra del coyote, un altro personaggio ricorrente è Mickey Haller, fratellastro di Bosch e avvocato interpretato da Matthew McConaughey in The Lincoln Lawyer. Anche Clint Eastwood ha reso il suo omaggio a Connelly con Debito di sangue» (Lorenzo Soria) • «Quando è nata la sua passione per la narrativa poliziesca? “A 16 anni fui testimone di un crimine che mi portò a contatto con l’affascinante mondo dei commissariati di polizia. Un’esperienza che impressionò molto la mia giovane psiche, spingendomi a identificarmi col poliziotto buono […] Non sarei mai diventato uno scrittore se non avessi letto il tredicesimo capitolo de La sorellina di Raymond Chandler. Quel capitolo è poesia pura e ancora oggi, prima di iniziare un romanzo ambientato a Los Angeles, devo rileggerlo. Oltre a Chandler, le mie muse sono Ross Macdonald, Joseph Wambaugh e i miei genitori”. Sono stati loro a incoraggiarla? “Papà era un artista mancato. Dopo aver frequentato la prestigiosa University of the Arts di Filadelfia sognava di diventare pittore ma per sfamare la famiglia fu costretto a mettere i sogni nel cassetto. Quando seppe che volevo fare lo scrittore mi ha appoggiato incondizionatamente ma è morto prima che il mio primo libro fosse pubblicato. Oggi sarebbe orgoglioso e sorpreso del mio successo quanto lo sono io che ho iniziato a scrivere per passione, non certo per arricchirmi. Il destino è stato benevolo con me: alcuni dei miei 5 fratelli hanno molto più talento di me ma il mondo non li conosce”. Che ruolo ha svolto sua madre? “Era un’avida lettrice di gialli che mi ha trasmesso l’amore per la letteratura hard boiled e fino alla morte fu sempre la prima a leggere i miei libri”» (ad Alessandra Farkas) • «Non sono mai stato un bravo studente. Ero svogliato e, se allora fosse esistita una definizione del genere, il mio comportamento sarebbe stato diagnosticato come sindrome da deficit di attenzione. Spesso marinavo la scuola o arrivavo in ritardo alle lezioni. Preferivo leggere i romanzi polizieschi di Chandler e Hammett che i classici di autori come Melville e Joyce, così come preferivo guardare i film noir piuttosto che fare i compiti. Quando cominciai a frequentare l’università della Florida me la cavai per il rotto della cuffia. Fui sospeso, reintegrato, posto in libertà vigilata. Capitava solo di rado che un argomento trattato in uno dei corsi mi facesse alzare la testa e catturasse la mia attenzione» • «Una parte della teoria dell’evoluzione sostiene che in ciascuna specie solo i più adatti sopravvivono nel tempo. Lo stesso avviene, in qualche modo, anche nella creazione del protagonista di un romanzo o di una serie di romanzi: una sorta di sintesi attraverso la quale lo scrittore vaglia un po’ alla volta le idee e le caratteristiche di un personaggio. […] Penso che l’avvocato difensore Mickey Haller rappresenti un buon esempio della teoria letteraria della sopravvivenza del più adatto. Haller è apparso per la prima volta in Avvocato di difesa, ma ricondurrei le sue origini a fonti di natura casuale. […] Penso che quasi tutti gli scrittori vi diranno di essere stati dei lettori molto prima di pensare a scrivere. E così è successo anche a me. È stata la lettura a spingermi a scrivere, e per molti versi le origini di Mickey Haller sono legate alle mie prime esperienze di lettura. Quando avevo dodici anni, la mia famiglia si trasferì dalla periferia di Filadelfia al regno dell’umidità, la Florida del Sud. Approdammo a Fort Lauderdale un’estate perché mio padre voleva avviare una nuova attività nel settore dell’autonoleggio, e vi rimanemmo. Durante quella prima estate, mia madre spesso lasciava me e i miei due fratelli più piccoli all’Holiday Park, un ampio centro comunale che aveva campi di baseball e football, di pallacanestro e tennis e offriva molte altre attività che tenevano impegnati i ragazzi all’aria aperta. Prendevamo lezioni di tennis da un uomo la cui figlioletta girava per i campi a raccattare le palle. Si chiamava Chrissie Evert. Il solo problema di Holiday Park era che quando a mezzogiorno si aveva sopra la testa quella grande sfera infuocata, a dispetto del nome non era più una vacanza. A metà della giornata i ragazzi venuti da Filadelfia non riuscivano a sopportare il caldo e l’umidità. Lasciavamo cadere racchette o guantoni da baseball e iniziavamo a guardarci attorno in cerca di sollievo. In un angolo del parco, al di là di campi verdi punteggiati di denti di leone, c’era un piccolo edificio — la biblioteca pubblica di Fort Lauderdale. Aveva l’aria condizionata. […] La bibliotecaria – ancor oggi mi rammarico di non saperne il nome – mi disse che non andava bene. Disse che la lettura era la chiave di ogni cosa. Mi condusse verso uno scaffale e tirò giù un libro. Mi disse di tornare al mio posto e cominciare a leggere. Mi rammentò che non voleva mai più vedermi senza un libro quando ero in biblioteca. Questa era la regola, disse. Risposi che l’avrei seguita. Il libro che mi diede era Il buio oltre la siepe di Harper Lee. Vorrei poter dire che lo aprii, cominciai a leggerlo e fui colpito da una rivelazione, come fosse un proiettile in mezzo agli occhi – l’improvvisa consapevolezza di voler diventare scrittore. Ma no, non andò così […] Facciamo ora un salto in avanti di molti anni e andiamo al punto B. Siamo all’inizio degli anni Novanta e sono un giornalista e scrittore che ha pubblicato la sua prima opera di narrativa, il cui protagonista è Harry Bosch, un detective della polizia di Los Angeles. Mi propongo di scrivere parecchi libri su questo detective, ma dentro di me ho l’idea di scrivere su un diverso personaggio, un avvocato difensore che dovrebbe rappresentare l’altra faccia della stessa medaglia — l’altra faccia del sistema giudiziario» • «“Nel 1986 fui nominato per il Pulitzer insieme ad altri due giornalisti del Fort Lauderdale News per un reportage sull’incidente del volo Delta 191. La notizia attirò l’attenzione del Los Angeles Times che, l’anno dopo, mi assunse come reporter di nera e per il quale seguii la drammatica vicenda di Rodney King”. Si è occupato anche del caso O.J. Simpson? “Accadde un mese dopo il mio addio ufficiale al Times. Dalla mia casa in cima alla collina godevo di un panorama fantastico della città e ricordo ancora come, alla vista degli elicotteri che inseguivano la Bronco di O.J., mi sentii felice di non essere nei panni del mio successore. Tornai a dedicarmi a L’ombra del coyote, il preferito tra i miei libri perché il primo scritto come autore full time”. La sua attività di giornalista ha influenzato quella di scrittore? “Il giornalismo mi ha insegnato tutto: l’attenzione per i dialoghi, l’etica del lavoro che ti vieta di avere insulsi blocchi dello scrivano. Anche oggi scrivo tutti i giorni e non mi sognerei mai di mettermi a fumare la pipa guardando fuori dalla finestra in cerca d’ispirazione. Il mio stile è molto diverso dagli autori col phD in scrittura creativa. Penso alla prosa straordinaria di Dennis Lehane che scrive romanzi polizieschi ma in maniera ben più forbita e letteraria della mia. Siamo le due facce della stessa medaglia”» (ad Alessandra Farkas) • «Il mio primo lavoro da scrittore professionista – cioè, pagato – fu per il Daytona Beach News Journal, dove facevo il reporter ed ero di solito mandato in periferia, nelle cosiddette Four Towns. Era un luogo in cui un solo giornalista era in grado di gestire tutte le notizie degne di stampa. La paga era bassa e il tempo non passava mai. Per risparmiare e avere un po’ di compagnia mi accordai con un altro reporter per condividere un appartamento. Questo giornalista si chiamava Dan Daly. Abitammo insieme, mentre lavoravamo al DBNJ, solo un anno, poi feci un passo avanti nella carriera passando al Fort Lauderdale News and Sun-Sentinel, un giornale più importante che mi garantiva uno stipendio migliore. Di lì a poco Dan mi seguì al Sun-Sentinel, ma il giornalismo non faceva per lui. Un paio d’anni dopo lasciò il giornale per andare a studiare legge in Nebraska e nel giro di qualche anno anch’io mi trasferii a Los Angeles per lavorare al Times, un altro passo avanti nella carriera giornalistica. Passò parecchio tempo – più di un decennio – e quando tornai in Florida vidi il nome di Dan Daly sui giornali: era l’avvocato di un uomo accusato di un crimine. Fu così che riallacciai i legami con lui. Presi il telefono e lo rintracciai. Quando si divide un appartamento con una sola camera da letto a centoventi dollari alla settimana con un collega, si resta compagni per la vita. Ripresi a vedere Daly e fu come se non fossero passati tutti quegli anni. Avevamo entrambi i capelli grigi ora, ma Daly aveva una coda di cavallo che lo faceva apparire il perfetto avvocato difensore dei fuorilegge. Incontrai in seguito il suo partner Roger Mills, un legale dall’aspetto più tradizionale, e feci loro la domanda. La grande domanda. Chiesi se potevo usarli come campioni per una mia ricerca. Spiegai che mi frullava per la mente l’idea di una storia su un avvocato difensore che lavorava a Los Angeles dalla sua auto. L’idea era ormai matura e avevo bisogno di metterla sulla carta. Ma prima dovevo sapere come funzionava la legge. Non in teoria, ma nella pratica. Volevo che nella mia storia ci fosse Los Angeles vista dai finestrini di una Lincoln Town e il sistema giudiziario visto dal basso, da chi lo viveva in trincea. Volevo fosse cruda e realistica. Daly e Mills dissero che se gli pagavo i Martini la risposta era sì, potevo accodarmi a loro» (CdS) • «Quando ho cominciato a cimentarmi col thriller non avevo un piano a lungo termine. Per quattro anni, mentre facevo il reporter di nera per il Los Angeles Times, ho scritto due romanzi, di notte. Non li ho mai mandati a nessuno. È stato un po’ il mio apprendistato. Con il terzo romanzo ho sentito che avevo compiuto una svolta, avevo trovato il personaggio, Harry Bosch, e la città, Los Angeles, e quello è diventato La memoria del topo, il mio debutto. Mia madre leggeva tantissimo, era davvero preparata. Mi giudicava, fu lei la prima barriera che dovetti superare, prima ancora degli editori» (a Giordano Tedoldi) • «Quando facevo il giornalista, non ho mai visto un detective privato risolvere un caso di omicidio» • «Dal suo esordio, nel 1992, lei scrive un thriller all’anno. Non le è mai venuto il desiderio irrazionale di scrivere qualcosa di diverso, di uscire dal sentiero del genere? “No. Io credo nelle possibilità del thriller, soprattutto nel fatto che il thriller mi permette di costruire un’intelaiatura che posso riempire con ciò che voglio. Certo, la parte dell’indagine è per così dire obbligata, è una costrizione, ma il detective può andare dove vuole. Può vedere nuove città, conoscere gente d’ogni tipo. E questo talvolta mi ha portato quasi a uscire dalla struttura del thriller. Ad esempio, c’è stato un momento in cui ho approfondito molto i gusti musicali di Harry Bosch, il jazz, che è una mia grande passione. E così ho pensato che un giorno potrei scrivere un romanzo sul jazz”» (a Giordano Tedoldi) • Scrive seduto sul divano e prima di iniziare fa scrocchiare ripetutamente le giunture delle dita delle mani • «Le opere di Dan Brown sono come puzzle e i puzzle non mi interessano. Preferisco libri come Act of War di Jack Cheevers, quello su Jfk di Vincent Bugliosi e Lost in Shangri-La di Mitchell Zuckoff. Amo leggere Stephen King che frequento quando sverna in Florida. Tra noi non esiste rivalità perché i nostri lettori sono talmente tanti e insaziabili che c’è spazio per tutti”. Che cosa pensa di James Patterson e della sua abitudine di avvalersi di collaboratori per i suoi libri? “È facile denigrare e attaccare Patterson ma nessuno è riuscito ad eguagliare il suo nobile traguardo: avvicinare ai libri milioni di persone che altrimenti non leggerebbero”. Chi preferisce tra John Grisham e Scott Turow? “Quest’ultimo, perché ama i dettagli quanto me. In realtà Turow e Grisham sono entrambi miei maestri, da loro ho imparato moltissimo ben prima di iniziare questo mestiere. Da piccolo ho letto anche Agatha Christie e Dashiell Hammett. Will Graham, protagonista de Il delitto della terza luna di Thomas Harris, ha avuto un effetto ipnotico su di me”» (ad Alessandra Farkas) • Sposato da quarant’anni con Linda McCaleb, hanno una figlia • È stato il presidente dei Mystery Writers of America dal 2003 al 2004.